sábado, 26 de mayo de 2012

Giacomo Leopardi y Menéndez Pelayo




PALINODIA
Al Marchese Gino Capponi




Errai, candido Gino; assai gran tempo,
 E di gran lunga errai. Misera e vana
 Stimai la vita, e sovra l’altre insulsa
 La stagion ch’or si volge. Intolleranda
Parve, e fu, la mia lingua alla beata
 Prole mortal, se dir si dee mortale
 L’uomo, o si può. Fra maraviglia e sdegno,
 Dall’Eden odorato in cui soggiorna,
 Rise l’alta progenie, e me negletto
Disse, o mal venturoso, e di piaceri
 O incapace o inesperto, il proprio fato
 Creder comune, e del mio mal consorte
 L’umana specie. Alfin per entro il fumo
 De’ sigari onorato, al romorio
De’ crepitanti pasticcini, al grido
 Militar, di gelati e di bevande
 Ordinator, fra le percosse tazze
 E i branditi cucchiai, viva rifulse
 Agli occhi miei la giornaliera luce
Delle gazzette. Riconobbi e vidi
 La pubblica letizia, e le dolcezze
 Del destino mortal. Vidi l’eccelso
 Stato e il valor delle terrene cose,
 E tutto fiori il corso umano, e vidi
Come nulla quaggiù dispiace e dura.
 Né men conobbi ancor gli studi e l’opre
 Stupende, e il senno, e le virtudi, e l’alto
 Saver del secol mio. Né vidi meno
E da Boston a Goa, correr dell’alma
 Felicità su l’orme a gara ansando
 Regni, imperi e ducati; e già tenerla
 O per le chiome fluttuanti, o certo
 Per l’estremo del boa. Così vedendo,
E meditando sovra i larghi fogli
 Profondamente, del mio grave, antico
 Errore, e di me stesso, ebbi vergogna.

 Auro secolo omai volgono, o Gino,
 I fusi delle Parche. Ogni giornale,
Gener vario di lingue e di colonne,
 Da tutti i lidi lo promette al mondo
 Concordemente. Universale amore,
 Ferrate vie, moltiplici commerci,
 Vapor, tipi e choléra i più divisi
Popoli e climi stringeranno insieme:
 Né maraviglia fia se pino o quercia
 Suderà latte e mele, o s’anco al suono
 D’un walser danzerà. Tanto la possa
 Infin qui de’ lambicchi e delle storte,
E le macchine al cielo emulatrici
 Crebbero, e tanto cresceranno al tempo
 Che seguirà; poiché di meglio in meglio
 Senza fin vola e volerà mai sempre
 Di Sem, di Cam e di Giapeto il seme.

Ghiande non ciberà certo la terra
 Però, se fame non la sforza: il duro
 Ferro non deporrà. Ben molte volte
 Argento ed or disprezzerà, contenta
 A polizze di cambio. E già dal caro
Sangue de’ suoi non asterrà la mano
 La generosa stirpe: anzi coverte
 Fien di stragi l’Europa e l’altra riva
 Dell’atlantico mar, fresca nutrice
 Di pura civiltà, sempre che spinga
Contrarie in campo le fraterne schiere
 Di pepe o di cannella o d’altro aroma
 Fatal cagione, o di melate canne,
 O cagion qual si sia ch’ad auro torni.
 Valor vero e virtù, modestia e fede
E di giustizia amor, sempre in qualunque
 Pubblico stato, alieni in tutto e lungi
 Da’ comuni negozi, ovvero in tutto
 Sfortunati saranno, afflitti e vinti;
 Perché diè lor natura, in ogni tempo
Starsene in fondo. Ardir protervo e frode,
 Con mediocrità, regneran sempre,
 A galleggiar sortiti. Imperio e forze,
 Quanto più vogli o cumulate o sparse,
 Abuserà chiunque avralle, e sotto
Qualunque nome. Questa legge in pria
 Scrisser natura e il fato in adamante;
 E co’ fulmini suoi Volta né Davy
 Lei non cancellerà, non Anglia tutta
 Con le macchine sue, né con un Gange
Di politici scritti il secol novo.
 Sempre il buono in tristezza, il vile in festa
 Sempre e il ribaldo: incontro all’alme eccelse
 In arme tutti congiurati i mondi
 Fieno in perpetuo: al vero onor seguaci
Calunnia, odio e livor: cibo de’ forti
 Il debole, cultor de’ ricchi e servo
 Il digiuno mendico, in ogni forma
 Di comun reggimento, o presso o lungi
 Sien l’eclittica o i poli, eternamente
Sarà, se al gener nostro il proprio albergo
 E la face del dì non vengon meno.

 Queste lievi reliquie e questi segni
 Delle passate età, forza è che impressi
 Porti quella che sorge età dell’oro:
Perché mille discordi e repugnanti
 L’umana compagnia principii e parti
 Ha per natura; e por quegli odii in pace
 Non valser gl’intelletti e le possanze
 Degli uomini giammai, dal dì che nacque
L’inclita schiatta, e non varrà, quantunque
 Saggio sia né possente, al secol nostro
 Patto alcuno o giornal. Ma nelle cose
 Più gravi, intera, e non veduta innanzi,
 Fia la mortal felicità. Più molli
Di giorno in giorno diverran le vesti
 O di lana o di seta. I rozzi panni
 Lasciando a prova agricoltori e fabbri,
 Chiuderanno in coton la scabra pelle,
 E di castoro copriran le schiene.
Meglio fatti al bisogno, o più leggiadri
 Certamente a veder, tappeti e coltri,
 Seggiole, canapè, sgabelli e mense,
 Letti, ed ogni altro arnese, adorneranno
 Di lor menstrua beltà gli appartamenti;
E nove forme di paiuoli, e nove
 Pentole ammirerà l’arsa cucina.
 Da Parigi a Calais, di quivi a Londra,
 Da Londra a Liverpool, rapido tanto
 Sarà, quant’altri immaginar non osa,
Il cammino, anzi il volo: e sotto l’ampie
 Vie del Tamigi fia dischiuso il varco,
 Opra ardita, immortal, ch’esser dischiuso
 Dovea, già son molt’anni. Illuminate
 Meglio ch’or son, benché sicure al pari,
Nottetempo saran le vie men trite
 Delle città sovrane, e talor forse
 Di suddita città le vie maggiori.
 Tali dolcezze e sì beata sorte
 Alla prole vegnente il ciel destina.

Fortunati color che mentre io scrivo
 Miagolanti in su le braccia accoglie
 La levatrice! a cui veder s’aspetta
 Quei sospirati dì, quando per lunghi
 Studi fia noto, e imprenderà col latte
Dalla cara nutrice ogni fanciullo,
 Quanto peso di sal, quanto di carni,
 E quante moggia di farina inghiotta
 Il patrio borgo in ciascun mese; e quanti
 In ciascun anno partoriti e morti
Scriva il vecchio prior: quando, per opra
 Di possente vapore, a milioni
 Impresse in un secondo, il piano e il poggio,
 E credo anco del mar gl’immensi tratti,
 Come d’aeree gru stuol che repente
Alle late campagne il giorno involi,
 Copriran le gazzette, anima e vita
 Dell’universo, e di savere a questa
 Ed alle età venture unica fonte!

 Quale un fanciullo, con assidua cura,
Di fogliolini e di fuscelli, in forma
 O di tempio o di torre o di palazzo,
 Un edificio innalza; e come prima
 Fornito il mira, ad atterrarlo è volto,
 Perché gli stessi a lui fuscelli e fogli
Per novo lavorio son di mestieri;
 Così natura ogni opra sua, quantunque
 D’alto artificio a contemplar, non prima
 Vede perfetta, ch’a disfarla imprende,
 Le parti sciolte dispensando altrove.
E indarno a preservar se stesso ed altro
 Dal gioco reo, la cui ragion gli è chiusa
 Eternamente, il mortal seme accorre
 Mille virtudi oprando in mille guise
 Con dotta man: che, d’ogni sforzo in onta,
La natura crudel, fanciullo invitto,
 Il suo capriccio adempie, e senza posa
 Distruggendo e formando si trastulla.
 Indi varia, infinita una famiglia
 Di mali immedicabili e di pene
Preme il fragil mortale, a perir fatto
 Irreparabilmente: indi una forza
 Ostil, distruggitrice, e dentro il fere
 E di fuor da ogni lato, assidua, intenta
 Dal dì che nasce; e l’affatica e stanca,
Essa indefatigata; insin ch’ei giace
 Alfin dall’empia madre oppresso e spento.
 Queste, o spirto gentil, miserie estreme
 Dello stato mortal; vecchiezza e morte,
 Ch’han principio d’allor che il labbro infante
Preme il tenero sen che vita instilla;
 Emendar, mi cred’io, non può la lieta
 Nonadecima età più che potesse
 La decima o la nona, e non potranno
 Più di questa giammai l’età future.
Però, se nominar lice talvolta
 Con proprio nome il ver, non altro in somma
 Fuor che infelice, in qualsivoglia tempo,
 E non pur ne’ civili ordini e modi,
 Ma della vita in tutte l’altre parti,
Per essenza insanabile, e per legge
 Universal, che terra e cielo abbraccia,
 Ogni nato sarà. Ma novo e quasi
 Divin consiglio ritrovàr gli eccelsi
 Spirti del secol mio: che, non potendo
Felice in terra far persona alcuna,
 L’uomo obbliando, a ricercar si diero
 Una comun felicitade; e quella
 Trovata agevolmente, essi di molti
 Tristi e miseri tutti, un popol fanno
Lieto e felice: e tal portento, ancora
 Da pamphlets, da riviste e da gazzette
 Non dichiarato, il civil gregge ammira.

 Oh menti, oh senno, oh sovrumano acume
 Dell’età ch’or si volge! E che sicuro
Filosofar, che sapienza, o Gino,
 In più sublimi ancora e più riposti
 Subbietti insegna ai secoli futuri
 Il mio secolo e tuo! Con che costanza
 Quel che ieri schernì, prosteso adora
Oggi, e domani abbatterà, per girne
 Raccozzando i rottami, e per riporlo
 Tra il fumo degl’incensi il dì vegnente!
 Quanto estimar si dee, che fede inspira
 Del secol che si volge, anzi dell’anno,
Il concorde sentir! con quanta cura
 Convienci a quel dell’anno, al qual difforme
 Fia quel dell’altro appresso, il sentir nostro
 Comparando, fuggir che mai d’un punto
 Non sien diversi! E di che tratto innanzi,
Se al moderno si opponga il tempo antico,
 Filosofando il saper nostro è scorso!
 Un già de’ tuoi, lodato Gino; un franco
 Di poetar maestro, anzi di tutte
 Scienze ed arti e facoltadi umane,
E menti che fur mai, sono e saranno,
 Dottore, emendator, lascia, mi disse,
 I propri affetti tuoi. Di lor non cura
 Questa virile età, volta ai severi
 Economici studi, e intenta il ciglio
Nelle pubbliche cose. Il proprio petto
 Esplorar che ti val? Materia al canto
 Non cercar dentro te. Canta i bisogni
 Del secol nostro, e la matura speme.
 Memorande sentenze! ond’io solenni
Le risa alzai quando sonava il nome
 Della speranza al mio profano orecchio
 Quasi comica voce, o come un suono
 Di lingua che dal latte si scompagni.
 Or torno addietro, ed al passato un corso
Contrario imprendo, per non dubbi esempi
 Chiaro oggimai ch’al secol proprio vuolsi,
 Non contraddir, non repugnar, se lode
 Cerchi e fama appo lui, ma fedelmente
 Adulando ubbidir: così per breve
Ed agiato cammin vassi alle stelle.
 Ond’io, degli astri desioso, al canto
 Del secolo i bisogni omai non penso
 Materia far; che a quelli, ognor crescendo,
 Provveggono i mercati e le officine
Già largamente; ma la speme io certo
 Dirò, la speme, onde visibil pegno
 Già concedon gli Dei; già, della nova
 Felicità principio, ostenta il labbro
 De’ giovani, e la guancia, enorme il pelo.

O salve, o segno salutare, o prima
 Luce della famosa età che sorge.
 Mira dinanzi a te come s’allegra
 La terra e il ciel, come sfavilla il guardo
 Delle donzelle, e per conviti e feste
Qual de’ barbati eroi fama già vola.
 Cresci, cresci alla patria, o maschia certo
 Moderna prole. All’ombra de’ tuoi velli
 Italia crescerà, crescerà tutta
 Dalle foci del Tago all’Ellesponto
Europa, e il mondo poserà sicuro.
 E tu comincia a salutar col riso
 Gl’ispidi genitori, o prole infante,
 Eletta agli aurei dì: né ti spauri
 L’innocuo nereggiar de’ cari aspetti.
Ridi, o tenera prole: a te serbato
 È di cotanto favellare il frutto;
 Veder gioia regnar, cittadi e ville,
 Vecchiezza e gioventù del par contente,
 E le barbe ondeggiar lunghe due spanne.



PALINODIA
Al marqués Gino Capponi.

Erré, cándido Gino, largo tiempo,
 y grandemente erré. Mísera y vana
 juzgué la vida; insulsa más que todas
 esta presente edad. Intolerable
 fue y pareció mi lengua a la dichosa
 prole mortal, si es que mortal se puede
 llamar el hombre. Entre desdén y asombro,
 del Edén odorífero en que habita,
 rio la alta progenie afortunada,
 y me llamó infeliz, y de placeres
 incapaz o inexperto, pues mi hado
 juzgué común, y de mi mal, consorte
 al humano linaje. Al fin mis ojos
 hirió la diaria luz de las gacetas,
 entre el humo volátil del cigarro
 y el ruido de crujientes pastelillos,
 entre el rumor de sacudidas tazas
 y blandidas cucharas, ante el grito
 ordenador de helados y bebidas
 cual voz de mando. Y confesé humillado
 la pública alegría y las dulzuras
 del destino mortal noble y excelso;
 y vi el valor de las terrenas cosas,
 y toda flores la carrera humana,
 las obras estupendas, las virtudes,
 alto saber, estudios y prudencia
 de nuestro siglo. De la Osa al Nilo,
 del Catay a Marruecos, y de Goa
 a Boston, vi correr reinos, ducados
 e imperios, anhelantes tras las huellas
 de la felicidad y asirla casi
 por los flotantes rizos, o a los menos
 por la cola del manto. Y esto viendo
 y meditando las profundas hojas,
 del grave antiguo error que me cegaba
 y aun de mí mismo yo tuve vergüenza.

 Áureo siglo, Marqués, hilan ahora
 los husos de las Parcas. Todo diario
 en varias lenguas y columnas varias,
 de todas partes lo promete al mundo.
 Universal amor, ferradas vías,
 vapor, tipos, comercio y aun el cólera,
 los más lejanos pueblos y naciones
 en lazo estrecharán; ni maravilla
 será que suden leche las encinas
 y miel los robles, o danzando giren
 a los sones de un vals. Tanto ha crecido
 el poder de retortas y alambiques
 y máquinas del cielo emuladoras,
 y tanto crecerá, volando siempre
 de progreso en progreso, sin medida,
 de Cam, de Sem y de Jafet la prole.

 No cual un día comerá bellotas
 si el hambre no la obliga; el duro hierro
 no depondrá. Con pólizas de cambio
 satisfecha tal vez, la plata y oro
 despreciará la generosa estirpe;
 mas no de sangre de los suyos nunca
 su mano ha de lavar; antes cubierta
 será de estragos, con la vieja Europa,
 del Atlántico mar la otra ribera,
 fresca nodriza de sin par cultura;
 y en campo lidiarán fraternas huestes
 por pimienta o aromas o canela
 o por el jugo de melosa caña,
 o alguna otra razón, práctica y útil.
 Y valor y virtud, y fe y modestia,
 y amor a la justicia, escarnecidos
 y de toda república arrojados
 como siempre serán; que es su destino
 estar siempre debajo. Torpe fraude
 y audacia impune elevarán su frente,
 nacidas a reinar. De imperio y fuerza,
 ya unidas en un haz, ya separadas,
 abusará quienquiera que los rija;
 no importa el nombre. Que esta ley grabaron
 Hado y Natura en tablas de diamante,
 y no la borrarán con sus centellas
 Volta ni Davy, ni Inglaterra toda
 con las máquinas suyas, ni en un Ganges
 de políticas hojas nuestro siglo
 ha de anegarla. Siempre el vil en fiesta,
 siempre el bueno en tristeza; conjurado
 el mundo todo contra excelsas almas;
 del verdadero honor perseguidoras
 calumnia, odio y envidia; de los fuertes
 despojo el débil, de los ricos siervo
 el ayuno mendigo, en toda forma
 de público gobierno, cerca o lejos
 del polo o de la eclíptica, y por siempre,
 si al humano linaje esta morada
 o la lumbre del sol no se nos niega.

 Estas leves reliquias, estos rastros
 de la pasada edad, fuerza es que impresos
 lleve la que ora surge edad del oro,
 porque de mil discordes elementos
 tejida está la condición humana,
 y a ponerlos en paz nunca bastaron
 fuerza ni entendimiento de los hombres,
 desque nació su generosa raza;
 ni bastarán, aunque potentes sean,
 en nuestra edad periódicos y pactos.

 Pero en cosas más graves será entera
 nuestra felicidad nunca soñada.
 O de lana o de seda los vestidos
 han de ser más galanos cada día;
 dejará el labrador los rudos paños
 por cubrir de algodón su piel hirsuta,
 de castor su cabeza. Y apacibles
 a la vista, mil cómodos sillones,
 mesas y canapés, lechos, tapetes,
 adornarán con su mensual belleza
 todo aposento. De manjares formas
 nuevas admirará, calderas nuevas,
 la humeante cocina. Y rapidísimo
 de París a Calais, de Calais a Londres
 y de aquí a Liverpool, será el camino,
 por no decir el vuelo...
                               Iluminadas
 mejor que ora lo están, mas no seguras,
 serán de las ciudades populosas
 las más ocultas y torcidas calles.

 Tales dulzuras, tan dichosa suerte
 a la naciente prole se aperciben.

 ¡Feliz aquél que mientras esto escribo
 llora en los brazos de la fiel niñera!
 Él ha de ver el suspirado día
 en que aprendan los niños con la leche
 de la cara nodriza, cuánto peso
 de sal, cuánto de carne, cuánta harina
 consume en cada mes la patria aldea,
 y cuántos de nacidos y de muertos
 anualmente consigna en su registro
 el anciano prior; cuando por obra
 del potente vapor, en un segundo
 impresas a millones, llano y monte
 y aun de los mares la extensión inmensa,
 cual bandada de grullas que se abate
 sobre ancho campo, y obscurece el día,
 cubrirán las gacetas, vida y alma
 del universo, y de saber en ésta
 y en la futura edad única fuente.

 Como un infante, con asiduo anhelo
 fabrica de cartones y de hojas
 ya un templo, ya una torre, ya un palacio,
 y apenas le ha acabado, le derriba,
 porque las mismas hojas y cartones
 para nueva labor son necesarias;
 así Natura con las obras suyas,
 aunque de alto artificio y admirables,
 aún no las ve perfectas, las deshace,
 y los diversos trozos aprovecha.

 Y en vano a preservarse de tal juego,
 cuya eterna razón le está velada,
 corre el mortal, y mil ingenios crea
 con docta mano; que a despecho suyo,
 la natura cruel, muchacho invicto,
 su capricho realiza, y sin descanso
 destruyendo y formando se divierte.

 De aquí varia, infinita, una familia
 de males incurables y de penas,
 al mísero mortal persigue y rinde;
 una fuerza implacable, destructora,
 desque nació le oprime dentro y fuera
 y le cansa y fatiga infatigada,
 hasta que él cae en la contienda ruda
 por la impía madre opreso y enlazado.

 ¡Del estado mortal miseria extrema!
 ¡Vejez y muerte que comienzan cuando
 el labio infante el tierno seno oprime
 que la vida destila! Ni enmendarlos
 podrá, por sabio y por feliz que sea,
 el siglo nonodécimo, ni cuantas
 vengan tras él edades sucesivas.

 Mas, si lícito me es la verdad neta
 por su nombre decir, sólo infelice
 será todo nacido, en cualquier tiempo,
 no en la vida civil, en toda vida,
 por esencia insanable y ley eterna
 que cielo y tierra abraza. Pero nuevo
 y divino remedio imaginaron
 de nuestra edad los ínclitos talentos,
 pues no pudiendo hacer feliz a nadie,
 se dieron a buscar, dejando al hombre,
 una común felicidad, e hicieron
 de muchos tristes un alegre pueblo,
 todo paz y ventura. Y tal portento,
 en folletos, revistas y gacetas,
 no declarado aún, asombra al mundo.

 ¡Oh mente sobrehumana, oh agudeza
 del siglo que ora corre! ¡Y qué seguro
 filosofar, y qué sapiencia, amigo,
 en más sublime asunto y remontado
 enseña nuestra edad a las futuras!

 ¿No ves con qué constancia hoy escarnece
 lo que ayer adoró, y el ara abate
 para juntar mañana sus pedazos
 y venerarlos entre humeante incienso?

 ¡Oh cuánta fe y estimación merece
 el concorde sentir de nuestro siglo...
 o el del año corriente!... ¡Y qué trabajo
 es comparar nuestro sentir y ciencia
 con el del año actual y el del que viene,
 porque ni un punto discrepemos todos!

 ¡Cuánto en filosofar adelantamos
 si al moderno se opone el tiempo antiguo!
 Uno de tus amigos, y maestro
 no sólo en poesía, mas en todas
 artes y ciencias, de la humana mente
 árbitro enmendador, me aconsejaba:

 «No cantes tus afectos y dedica
 esa viril edad a los severos
 estudios económicos. Atiende
 al público gobierno. ¿El propio pecho
 qué te vale explorar? Materia al canto
 no busques en ti mismo. Las grandezas
 de nuestro siglo di; di su esperanza
 que madurando va.»
                        ¡Recto consejo,
 que yo escuchaba con solemne risa,
 al resonar en mi profano oído
 ese cómico nombre de esperanza!

 Mas ora vuelvo atrás y la carrera
 contraria emprendo, persuadido al cabo
 que quien anhele gloria y busque fama,
 al propio siglo contrastar no debe,
 sino adular y obedecer: ¡por corta
 y fácil vía llegaré a los astros!

 De tan alta ventura deseoso
 materia no darán al canto mío
 de la presente edad los intereses.

 Ya sabrán mercaderes y oficinas
 cuidar de ellos mejor. Mas la esperanza
 he de decir, que ya visible prenda
 nos conceden los dioses; ya de larga
 felicidad principio, ostenta el labio
 y el rostro del garzón enorme pelo.

 ¡Oh luz primera, saludable signo
 de la famosa edad que se levanta,
 mira cómo se alegran tierra y cielo
 delante a ti; cómo fulgura el rostro
 de la doncella, y en convites vuela
 la gloria ya de los barbados héroes!

 ¡Crece, crece a la patria, oh masculina
 moderna prole! A tu velluda sombra
 Italia crecerá, crecerá Europa
 de las fauces del Tajo al Helesponto,
 y el mundo al fin reposará seguro.

 ¡Y tú comienza a saludar con risa
 a los híspidos padres, prole infante,
 para los áureos días elegida!

 Ni te asuste el negrear de su semblante.

 ¡Sonríe, oh tierna prole; a ti guardado
 de tanto y tanto hablar espera el fruto!

 Mira el gozo reinar, ciudades, villas,
 vejez y juventud al par contentas
 y las barbas ondear largas dos palmos.