MALLARMÉ A OXFORD
Il 1° marzo del 1894,
in una sala della Taylorian Institution a Oxford, davanti a un pubblico di una
sessantina di persone, che egli descrisse come punteggiato di qualche
professore ma nella maggior parte costituito da signore che «cercavano
un’occasione per sentir parlare francese», Mallarmé pronunciò il discorso noto
sotto il titolo La Musique et les Lettres. Invitato a fornire «informazioni su
alcune circostanze della nostra situazione letteraria», prese alla lettera la
sua incombenza di cronista e cominciò dando un annuncio che mimava un titolo di
giornale:
«Di fatto porto
notizie. Le più sorprendenti. Un caso simile mai si era visto.
«On a touché au vers».
Mirabile l’ironia di
quell’«on», come nelle notizie degli attentati, dove l’incertezza sul soggetto
accresce il terrore. E poi quel «touché», verbo così fisico. Che presuppone,
per il verso, un precedente stato di intoccabilità. Mentre ora sembrava prospettarsi
l’entrata in una condizione promiscua. E Mallarmé continuava poi a parodiare la
prima pagina di un giornale, ma questa volta per la colonna dell’editoriale: «I
governi cambiano: sempre la prosodia rimane intatta: sia che, nelle
rivoluzioni, passi inosservata sia che l’attentato non si imponga insieme
all’opinione che questo dogma ultimo possa variare». Poi si scusava per la
dizione spigolosa e ansimante, come di chi ha visto un incidente e freme di
riferirne, con una angoscia commisurata alla gravità del fatto: «Perché il
verso è tutto, se si scrive». Mallarmé non dice: «se si è poeti». Dice: «se si
scrive». Presupposto: che la prosa stessa non sia che «un verso spezzato, che
gioca con i suoi timbri e anche le rime dissimulate». Seguono alcune righe
tecniche, con un lampo finale: «perché ogni anima è un nodo ritmico».
Osserviamo questa
sequenza di puro teatro mentale, che è poi la disciplina per elezione di
Mallarmé: chiamato a parlare sul tema «French poetry», quasi da scuola serale,
e preceduto – per quei pochi che già avevano sentito parlare di lui – da una
fama di poeta non fra i più accessibili, Mallarmé esordisce con una formula che
potrebbe essere il titolo cubitale di un quotidiano della sera; enuncia poche
righe dopo – anzi sottintende – una delle sue tesi più audaci: che la prosa non
esiste, che tutto è verso, più o meno riconoscibile; infine culmina in una di
quelle formule irradianti di cui aveva il segreto: l’anima come «nodo ritmico».
Chi non colga il «fiore» di Mallarmé – nel senso che la parola aveva per Zeami,
fondatore del teatro Nō – nella successione di queste tre scene difficilmente
lo coglierà in un suo sonetto.
Ma tentiamo di
ricostruire gli eventi dei quali urgeva a Mallarmé dare notizia. All’origine
troviamo la morte di Victor Hugo, nel 1885. Era stata una brusca svolta nella
storia segreta della letteratura. Mallarmé così l’avrebbe descritta in Crise de
vers:
«Hugo, nel suo compito
misterioso, ridusse tutta la prosa, filosofia, eloquenza, storia al verso, e,
poiché egli era in persona il verso, confiscò a coloro i quali pensano,
discutono, narrano, quasi il diritto di enunciarsi. Monumento in questo
deserto, con il silenzio lontano; in una cripta, la divinità di una maestosa
idea inconscia: che la forma chiamata verso è semplicemente essa stessa la
letteratura; che si dà verso non appena si accentua la dizione, ritmo allorché
si dà stile. Il verso, credo, rispettosamente attese che il gigante che lo
identificava con la sua mano tenace e sempre più ferma di fabbro venisse a
mancare: per spezzarsi. Tutta la lingua, accordata con la metrica, da cui
recupera le sue scansioni vitali, evade, secondo una libera disgiunzione dai
mille elementi semplici».
Se la storia della
letteratura sapesse nominare ciò che accade nella letteratura, parlerebbe così.
In poche righe Mallarmé aveva raccontato il movimento, prima centripeto poi
centrifugo, che governa la lingua francese fino a lui – e da lui a oggi.
Centripeto: Hugo confisca tutte le forme nella sua fumosa officina. Lascia così
intendere che il verso ingloba in sé tutta la letteratura. Centrifugo: alla
morte di Hugo la letteratura prende l’occasione per evadere dal cerchio magico
del metro, non più protetto dal possente Ciclope, e disperdersi «secondo una
libera disgiunzione dai mille elementi semplici». Primo sintomo di questa fase:
alcuni giovani poeti cominciano a rivendicare, talvolta con ingenua
spavalderia, la pratica del vers libre. Mallarmé sa come nessuno che il vers
libre non è una grande scoperta. Anzi, che parlare di libertà in letteratura è
improprio – e suggerisce (genialmente) di chiamare quel nuovo verso
«polimorfo». Ma non scoraggia quei giovani. Perché vede in loro i primi agenti
del salutare rimescolamento conseguente alla «frammentazione dei grandi ritmi
letterari». Ora, quasi d’improvviso, i metri, e persino l’alessandrino, che fra
di essi è il «gioiello definitivo», fluttuano come nobili relitti, alla stregua
di un «vecchio stampo esausto», mentre Laforgue già invita a subire «il sicuro
incanto del verso falso». Ora le «dissonanze sapienti» sono un’attrazione per
la sensibilità più delicata, mentre un tempo sarebbero state semplicemente
condannate, con furia pedantesca. E qualcosa di affine stava accadendo in
musica, dove il cromatismo esacerbato feriva e svuotava dall’interno la
tonalità sino a che i viennesi l’avrebbero ripudiata.
Ma questi eventi
andavano osservati sulla base anche di un’altra traumatica notizia che Mallarmé
si ritenne ugualmente in dovere di trasmettere. Con somma sprezzatura, scelse
questa volta l’occasione di una inchiesta giornalistica condotta per conto
dell’«Écho de Paris» dal provvidenziale Jules Huret. Al quale così avrebbe
parlato:
«Il verso è ovunque
nella lingua vi sia ritmo, ovunque salvo nei manifesti e negli annunci
pubblicitari. Nel genere chiamato prosa, ci sono versi, talvolta mirabili, in
ogni ritmo. Ma, in verità, la prosa non c’è: c’è l’alfabeto e poi dei versi più
o meno fitti, più o meno radi. Ogni volta che c’è sforzo di stile, vi è
versificazione».
Dichiarazione sufficiente
per rovesciare le posizioni di tutti i termini, con una audacia
incomparabilmente maggiore di quella dei vers-libristes. Bastavano quelle tre
frasi per far assumere al verso una fisionomia che prima di quel momento
sarebbe apparsa aberrante: non più il verso canonico della metrica e neppure
l’informe verso libero, ma un essere pervasivo e ubiquo, nervatura occulta di
ogni composizione di parole. Se il verso rispettoso della prosodia ha subìto un
attentato che ne lede per sempre l’integrità, se la prosa addirittura «non
c’è», che cosa rimane allora? La letteratura, ma in un suo nuovo avatar:
scintillante ovunque, come un pulviscolo onniavvolgente, assoggettata a uno
«sparpagliamento in brividi articolati prossimi alla strumentazione».
Un passaggio così
radicale difficilmente poteva essere attribuito ad alcuni acerbi poeti, che
provavano nuovi accenti. Essi erano solo la spia di un sommovimento sordo e
grandioso, il primo manifestarsi del fatto che ormai non era più possibile
corrispondenza immediata fra stile e società. Questo volle aggiungere Mallarmé
al suo intervistatore, usando un linguaggio piano e terso: «Soprattutto è
venuta a mancare questa nozione indubitabile: che in una società senza
stabilità, senza unità, non può crearsi un’arte stabile, un’arte definitiva».
Da qui «l’inquietudine delle intelligenze», da qui «l’inspiegato bisogno di
individualità di cui le manifestazioni letterarie attuali sono il riflesso
diretto». Formidabile sociologo, se solo voleva, Mallarmé era ben più
interessato a un altro ordine di eventi che si stava profilando: quella palese
inadeguatezza della comunità a crearsi un suo stile avrebbe dato allo stile
stesso l’occasione – forse attesa da secoli – per emanciparsi, evadendo al di
fuori della società, che lo aveva sempre utilizzato ai propri fini. Mentre ora
si apriva una nuova terra, sconosciuta: la terra dei «nodi ritmici», luogo
delle forme sciolte da ogni obbedienza e riposanti in se stesse.
Ciò che Mallarmé disse
a Huret sulla prosa si presenta come affermazione apodittica, eppure subito
convincente. Ma come provarla? Tenterò di avvicinarmi al tema attraverso un
esempio. Baudelaire incluse nello Spleen de Paris tre brani che hanno lo stesso
titolo e tema di tre poesie delle Fleurs du mal. Fra di esse, la celebre Invitation
au voyage. La lirica è perfetta, fusa come un Vermeer, in ogni sillaba vi si
distilla quella «dose di oppio naturale, incessantemente secreta e rinnovata»,
che «ogni uomo porta in sé» – e che in Baudelaire era singolarmente generosa.
Il poème en prose, posteriore, ricalca la lirica punto per punto, ma suona
assai meno efficace, e talvolta sottolineato, almeno per chi già conosca i
versi. Il perché di tutto questo non è evidente. Confrontando i due testi, si
osserva che molte delle immagini e delle tournures compaiono in entrambi. Ma il
testo in prosa ha un vizio: è insieme lirico e circostanziato. I versi invece
sono sobri e laconici. Non sarebbe possibile, in vari punti, darne una versione
più semplice. Consideriamo per esempio la descrizione dei mobili che dovrebbero
arredare il luogo di felicità evocato. Nella lirica si dice: «Des meubles
luisants, / Polis par les ans, / Décoreraient notre chambre». Nella prosa si
dice: «I mobili sono vasti, curiosi, bizzarri, armati di serrature e di segreti
come anime raffinate. Gli specchi, i metalli, le stoffe, gli oggetti preziosi e
le maioliche vi suonano per gli occhi una sinfonia muta e misteriosa; e da
tutte le cose, da tutti gli angoli, dagli spiragli dei cassetti e dalle pieghe
delle stoffe esala un profumo singolare, un sentore di Sumatra, che è come
l’anima dell’appartamento». Qui Baudelaire, precisando, diluisce. E non si sa
che cosa deprecare di più: se il paragone dei mobili con le «anime raffinate»,
soltanto perché sono provvisti di serrature; o, forse ancor peggiore,
l’immagine dei vari oggetti che «suonano per gli occhi una sinfonia muta e
misteriosa»; o la puntigliosità con cui si precisa che un certo profumo esotico
sarebbe «l’anima dell’appartamento» (e qui la parola «appartamento», nella sua
impietosa facies catastale, dà l’ultimo colpo per togliere incanto al testo).
Si fanno poi notare varie indelicatezze che distinguono il testo in prosa da
quello in versi: la donna invitata al viaggio è evocata nella poesia al primo
verso, con il definitivo «Mon enfant, ma sœur», a cui nulla si potrebbe
aggiungere. Nel testo in prosa, invece, la donna viene definita all’inizio «une
vieille amie», formula che già suona come una gaffe, e più avanti diventa, con
sicura progressione nell’insipidezza, «mon cher ange», poi «la femme aimée»,
poi «la sœur d’élection» (dove quell’«élection» è un’altra precisazione non
richiesta). Ma anche l’uso dell’aggettivo «profond» è rivelatore: nel testo in
prosa appare due volte – già troppe, tanto più se si aggiunge anche una
menzione delle «profondeurs du ciel» –, e oltretutto a distanza di tre righe:
una volta riferito al suono degli orologi, l’altra a certe pitture che
dovrebbero ornare le stanze degli assenti: «Beate, calme e profonde come le
anime degli artisti che le crearono». Nel testo in versi, invece, si parla
soltanto di «miroirs profonds» nelle stesse stanze. E appare subito palese
quanto più efficaci, quanto più intense e misteriose siano le due parole della
lirica rispetto all’ingombrante affastellarsi di aggettivi nella prosa,
aggravato da un’ulteriore apparizione della parola «âme», questa volta al
plurale.
Si potrebbe continuare
con altri paralleli, ma già così il confronto è schiacciante. Non vorrei però
si pensasse che si tratta qui soltanto di uno scontro fra prolissità e
concisione, fra poeticità – nemica di ogni letteratura – e sobrietà. E tanto
meno vorrei che si pensasse a una superiorità intrinseca del verso sulla prosa:
di fatto, sarebbe facilmente immaginabile un esempio inverso, di una poesia ridondante
che guasta l’asciutta rapidità di un appunto in prosa. La ragione per cui ho
proposto questo esempio ha invece a che fare con la teoria mallarmeana
dell’inesistenza della prosa. Se i versi dell’Invitation sono incomparabilmente
più belli della versione in prosa, è innanzitutto perché in essi agisce,
sovranamente, la potenza del metro, perché i versi sono stretti da una morbida
tenaglia fatta di metro e di rima: due quinari con rima maschile seguiti da un
settenario con rima femminile, dove alla spigolosità – come di vertici di un
triangolo – delle rime maschili risponde ogni volta il lieve avvallamento della
rima femminile. E questa berceuse appena ondeggiante – come certi navigli dalla
«humeur vagabonde» nei canali di Amsterdam, magazzino europeo delle spezie
orientali –, questo movimento appena accennato, ma percettibile con fiamminga
nitidezza, fa sì che le parole diventino sue prigioniere e non possano
espandersi oltre anche di una sola sillaba, così evitando di inoltrarsi nella
spiegazione che uccide, in quella che Verlaine chiamava «la Pointe assassine».
Che accade invece
nella versione in prosa? Vi agisce davvero un metro occulto e innominato,
secondo la tesi di Mallarmé? Ma non contrasterebbe questo con i propositi di
Baudelaire stesso, il quale, nella lettera-dedica a Houssaye che precede lo
Spleen de Paris aveva presentato l’opera come esemplare di «una prosa poetica,
musicale senza ritmo e senza rima»? «Senza ritmo»: si direbbe, di primo
acchito, una tesi addirittura opposta a quella di Mallarmé. Come se la prosa
volesse conquistare i territori della poesia senza sottoporsi ai rigori di una
metrica. Ma si sa che le dichiarazioni di poetica sono spesso trappole
amorosamente predisposte dagli scrittori per i loro lettori. Così è accaduto
che lo specillo di Gianfranco Contini abbia un giorno isolato, già nel primo
paragrafo di quella stupenda lettera programmatica di Baudelaire, una tessitura
fatta di emistichi di alessandrino e culminante, nell’ultima frase, con un
alessandrino puro: «J’ose vous dédier le serpent tout entier». Non solo, ma
allargando l’indagine ai singoli poèmes en prose Contini vi ha individuato
numerosi altri emistichi di alessandrino, fra i quali può anche spiccare «un
compiuto alessandrino, talora fra i più straordinari che Baudelaire abbia
scritto: “au loin je ne sais quoi avec ses yeux de marbre”». O un alessandrino
lievemente irregolare come: «Que les fins de journées d’automne sont
pénétrantes». E le prove convergono verso una conclusione: tutto lo Spleen de Paris
è «grondante di alessandrini interni». Ma che cosa succede quando, come nel
caso dell’Invitation au voyage, preesiste alla prosa un modello in versi «che
non ha alcun rapporto con l’alessandrino»? Ne abbiamo già visto le conseguenze
semantiche, con quelle amplificazioni che disciolgono la formula magica del
verso in una lenta onda, dal fascino meno intenso, ma sempre alto. Ora,
l’orecchio di Contini è riuscito a individuare il numerus anche di quell’onda:
«Tanto lusso si presta a una sola interpretazione, che epigraficamente si potrà
enunciare come trasformazione dell’Invitation in un equivalente della poesia in
alessandrini». Come se Baudelaire avesse obbedito qui, ancora una volta,
all’oscura coazione che lo spingeva a dire tutto in alessandrini. Solo in quel
metro poteva scandirsi per lui la lingua adamica. Nelle due versioni
dell’Invitation, il duello non è dunque fra il metro e la prosa «senza ritmo»,
come Baudelaire pretendeva. Ma è un duello fra due metri. E, per una volta,
l’alessandrino soccombe alla berceuse. Evento tanto più singolare in quanto,
come suona la formulazione di Contini, «Baudelaire, nonostante tutto, parla,
per così dire, naturalmente in alessandrini o loro frammenti anche dove li
smorza e riduce». Gli alessandrini interni dello Spleen de Paris vengono allora
a corroborare, come una dimostrazione per assurdo, le tesi di Mallarmé.
Ma si trattava per lui
soltanto di affermare una sorta di onnipresenza del metro nella prosa? O ciò
che gli premeva era qualcosa di più sottile e più grave? Torniamo allora alle
enunciazioni riportate da Huret, nei loro tratti più sorprendenti: «... in
verità, la prosa non c’è: c’è l’alfabeto e poi dei versi più o meno fitti, più
o meno radi». Difficile cogliere subito le conseguenze di queste frasi, tanto
esse sono vaste. Come l’oppio secondo Baudelaire, sono parole che hanno il
potere di «allungare l’illimitato». Il paesaggio che ora si spalanca ha due
estremi: da una parte l’alfabeto, dall’altra un ritmo. E ritmo significa:
metro. In un primo momento, si direbbe che il linguaggio, sino allora invadente
e dominante sulla scena, si sia dissolto. Poi lo ritroviamo, come puro
materiale che si elabora e continuamente trasmigra da un estremo all’altro. I
rapporti sono mutati: ora non è più il metro che sussiste in funzione del
linguaggio, ma l’inverso: il linguaggio si elabora in funzione del metro.
Soltanto il metro fa sì che vi sia stile. E soltanto lo stile fa sì che vi sia
letteratura. Di conseguenza: la differenza fra poesia e prosa è inconsistente. Si
tratta solo di gradi diversi all’interno dello stesso continuo. Le scansioni
ritmiche possono essere più o meno evidenti e riconoscibili. Comunque sono esse
la potenza che regge la parola, come se la qualità letteraria si giocasse
innanzitutto nella tensione fra questo elemento non verbale, gestuale,
pressante e l’articolarsi della parola stessa. Inoltre: se «la prosa non c’è»,
si può dire anche che non c’è la poesia. Che cosa rimane, allora? La
letteratura. Mallarmé lo aveva detto con la massima chiarezza: «la forma
chiamata verso è semplicemente essa stessa la letteratura». Ma aveva anche
detto che, sino alla morte di Hugo, questa verità era stata occultata come una
divinità in una cripta. Operante, ma come «una maestosa idea inconscia», una
sorta di sogno clandestino della letteratura intorno a se stessa. Ora quel
sogno erompeva alla luce. E a questo pensava Mallarmé quando scriveva che la
fine del suo secolo era accompagnata da una «inquietudine del velo nel tempio,
con pieghe significative e un po’ il suo lacerarsi». Parole che suonavano nella
mente di Yeats quando intitolò «Il tremito del velo» la prima parte di
Autobiographies. E soprattutto quando, la sera della prima di Ubu Roi, disse a
qualche amico: «Dopo Stéphane Mallarmé, dopo Paul Verlaine, dopo Gustave
Moreau, dopo Puvis de Chavannes, dopo i nostri stessi versi, dopo tutto il
nostro sottile colore e il nostro ritmo nervoso, dopo le pallide tinte miste di
Charles Conder, che altro è ancora possibile? Dopo di noi, il Dio Selvaggio».
A distanza di un
secolo, se un lieve accenno di incredulità si forma al nome di Puvis de
Chavannes, al quale riluttiamo ad attribuire un qualche potere dissestante, per
il resto non possiamo che riconoscere in quelle parole l’accordo surriscaldato
dei tempi nuovi. Soprattutto se pensiamo che Mallarmé vi figurava in quanto
nome che fa da guida.
Appare a questo punto
sempre più evidente come, dietro le rivendicazioni del vers libre, Mallarmé
aveva intravisto un evento di ben altra portata, che si manifestava «per la prima
volta nel corso della storia letteraria di qualsiasi popolo»: la possibilità,
per ogni singolo, «con il proprio modo di suonare e il proprio orecchio
individuale, di comporsi uno strumento, appena vi soffia, lo sfiora o lo
percuote con scienza». In altri termini, l’evasione dal canone della retorica,
che non viene rinnegata ma non ha più valore vincolante, né può pretendere
ormai di essere la voce di una comunità. Al più, toccherà alla retorica intera
la sorte che ora aspetta l’alessandrino: venire esposto, in quanto «cadenza
nazionale», come la bandiera, solo in giorni di festa e per rare celebrazioni.
Ma per Mallarmé uscire dalla fortezza della retorica non significava tuffarsi
in un informe maelstrom. Al contrario, ciò che al suo occhio balenava era una
letteratura dove ancor più si sarebbe esaltato il potere della forma, ormai
disancorata da tutto e ancor più severamente cifrata, ma forse appunto per
questo più vicina al nostro fondo, perché «Deve esservi qualcosa di occulto in
fondo a tutti». Quella inaudita letteratura si schiudeva come una vasta
superficie combinatoria, composta di lettere e cosparsa di metri – integri,
spezzati, palesi, contraffatti. Proprio nel momento in cui la metrica veniva
esautorata come voce di una comunità, i singoli metri, i singoli passi
fisiologici diventavano il numerus nascosto e animatore di tutta la
letteratura, avviata ormai verso una fase altamente «polimorfa». Ma nulla era
più alieno da Mallarmé del gesto baldanzoso delle avanguardie. Certo, la
situazione costringeva a un’«alta libertà acquisita, la più nuova». A cui però
andava aggiunto (e qui il timbro di Mallarmé era pacato e fermo): «Non vedo, e
questo rimane mia ferma opinione, cancellazione di alcunché sia stato bello nel
passato». Ciò che cambiava radicalmente era la posizione strategica della
parola «letteratura». Da una parte resa superflua e inoperante dal dilagare
dell’«universel reportage», che la soffocava. Ma catapultata, allo stesso
tempo, in un nuovo cielo e nuova terra. Era proprio quest’ultima la più
impercettibile e la più sconvolgente notizia. Mallarmé la dispose verso il
centro della sua conferenza di Oxford. E vi si approssimò con tutte le cautele,
avvertendo premurosamente che si trattava di una «esagerazione»:
«Sì, la Letteratura
esiste e, se si vuole, sola, a eccezione di tutto».
Ben più di ogni
disputa sul verso, questo poteva davvero lasciare allibiti. Con la sua maniera
«un po’ da sacerdote, un po’ da ballerina», con la sua dizione infinitamente
delicata e terroristica, Mallarmé notificava che la letteratura, uscita dalla
porta della società, rientrava da una cosmica finestra, dopo aver assorbito in
sé nulla meno che tutto. Quelle parole segnavano la conclusione di una lunga,
sinuosa storia. E celebravano il cristallizzarsi di una fiction temeraria, di
cui si sarebbe nutrito tutto il secolo allora incombente. Di cui continuiamo a
nutrirci noi: la letteratura assoluta.
MALLARMÉ EN OXFORD
El 1° de marzo de
1894, en una sala de la Taylorian
Institution de Oxford, Mallarmé pronunció el discurso conocido como La Musique et les Lettres. El público
estaba constituido por unas sesenta personas, entre las que se encontraba algún
profesor; pero la mayoría, según lo contará el propio Mallarmé, eran señoras
que «buscaban una ocasión para oír hablar francés». Mallarmé se encontraba allí
gracias a una invitación para dar «noticias de algunas circunstancias de
nuestra situación literaria». Por lo que, tomándose al pie de la letra su
cometido de cronista, comenzó con una información que imitaba un título de
periódico:
En efecto traigo noticias. Las más
sorprendentes. Nunca se había visto un caso similar.
On a touché au vers.
Es admirable la ironía
de ese «on», como en las crónicas
sobre crímenes, donde la incertidumbre del sujeto acrecienta el terror. Seguido
de ese «touché», tan físico. Ello
presupone, para el verso, un precedente estado de intangibilidad, mientras que
ahora parecía anunciarse la entrada en una condición promiscua. Mallarmé
continuaba luego la parodia de la primera página de un diario, empezando esta
vez por la columna editorial: «Los gobiernos cambian: la prosodia siempre
permanece intacta: ya sea porque, durante las revoluciones, transcurre
inadvertida, o porque el atentado no se impone, gracias a la opinión que no
cree que este dogma pueda cambiar». Después se disculpa de la dicción
alambicada y jadeante, como quien ha presenciado un accidente y tiembla al
contarlo, con una angustia proporcional a la gravedad del hecho: «Porque el
verso lo es todo, si se escribe». Mallarmé no dice «si se es poeta»; dice: «si
se escribe». Parte del presupuesto de que la prosa misma no es otra cosa que
«un verso fragmentado, que juega con sus timbres e incluso con sus rimas
disimuladas». Siguen algunas líneas técnicas, con una fulguración final:
«porque toda alma es un nudo rítmico».
Observemos esta
secuencia de puro teatro mental, que es por otra parte la disciplina favorita
de Mallarmé: convocado para disertar sobre el tema «French poetry», como si se tratase de una escuela nocturna, y
precedido —para los pocos que ya habían oído hablar de él— de una fama de poeta
más bien hermético, Mallarmé abre su discurso con una fórmula que podría ser el
título de varias columnas de un diario vespertino. Pocas líneas más abajo
enuncia —o, mejor dicho, da por sobrentendido— una de sus tesis más audaces:
que la poesía no existe, que todo es verso, más o menos reconocible. En fin,
culmina una de aquellas fórmulas luminosas que era tan propias de él: el alma
como «nudo rítmico». Quien no adivine la «flor» de Mallarmé —en el sentido que
daba a esta palabra Zeami, el fundador del teatro No— en la sucesión de estas
tres escenas, difícilmente será capaz de descubrirla en alguno de sus sonetos.
Pero intentemos
reconstruir los acontecimientos acerca de los cuales Mallarmé quería dar noticia
urgente. En el origen encontramos la muerte de Victor Hugo, en 1885. Se trataba
del brusco final de una época en la historia secreta de la literatura. Mallarmé
la describe así en Crise de vers:
En su misteriosa labor, Hugo redujo toda la
prosa, la filosofía, la elocuencia y la historia al verso y, como era el verso
en persona, a punto estuvo de confiscar, en quien piensa, discurre o narra, el
derecho a enunciarse. Monumento en este desierto, con el silencio a lo lejos;
en una cripta, la divinidad, así, de una majestuosa idea inconsciente, según la
cual la forma llamada verso es, sencillamente, y por sí misma, la literatura;
que hay verso en cuanto se acentúa la dicción, y ritmo desde que hay estilo. A
mi juicio, el verso esperó con respeto a que faltase el gigante que
identificaba con su mano tenaz y cada vez más firme de herrero, y, por él,
llegara a romperse. Toda la lengua, ajustada a la métrica, y recobrando en ella
sus cesuras vitales, desaparece, según una libre disyunción en mil elementos
simples…
Si la historia de la
literatura supiese denominar aquello que tiene lugar en la misma literatura,
hablaría sin duda en estos términos. En pocas líneas, Mallarmé había contado el
movimiento, antes centrípeto que centrífugo, que gobierna la lengua francesa
hasta él mismo, y, también, de él en adelante. Centrípeto: Hugo confisca todas
las formas en su taller humeante. Deja entender de esta manera que el verso
abarca en sí toda la literatura. Centrífugo: muerto Hugo, la literatura
aprovecha la ocasión para evadirse del cerco mágico del metro, que el Cíclope
ya no puede vigilar, y se dispersa «según una libre disyunción de miles de
elementos simples». Síntoma primero de esta fase: algunos jóvenes poetas
comienzan a reivindicar, acaso con ingenua arrogancia, la práctica del vers libre. Pero Mallarmé sabe mejor que
nadie que el vers libre dista mucho
de ser un gran descubrimiento. Sabe que hablar de libertad en literatura es
incluso impropio, y sugiere (genialmente) denominar «polimorfo» a aquel verso
nuevo. Sin embargo, no pretende desalentar a aquellos jóvenes que lo practican,
puesto que ve en ellos a los primeros agentes de la saludable fundición que
debe seguir a la «fragmentación de los grandes ritmos literarios». Ahora bien:
casi de improviso, los metros, incluido el alejandrino, que es «la joya
definitiva» de todos ellos, fluctúan como nobles fragmentos de un naufragio,
tal como lo haría un «viejo molde exhausto», al mismo tiempo que Laforgue
invita a experimentar «el seguro encanto del verso falso». Las «sabias
disonancias» eran por entonces un divertimento para las sensibilidades más
delicadas, pero tiempo después sencillamente se las condenaría, con furiosa
pedantería. Algo semejante estaba sucediendo en la música: el cromatismo
exacerbado hería y vaciaba la tonalidad desde su interior; tiempo después los
vieneses iban a repudiarla definitivamente.
Pero estos
acontecimientos eran observados además sobre la base de otra traumática noticia
que Mallarmé se consideraba en el deber de transmitir. Con gran displicencia,
escoge esta vez la ocasión de una encuesta periodística realizada para el Écho de Paris por el providencial Jules
Huret. He aquí la respuesta de Mallarmé:
El verso se halla en cualquier parte en que la
lengua tenga ritmo, salvo en los carteles y en los anuncios publicitarios. En
el género denominado prosa, existen también los versos, a veces admirables, en
todos los ritmos. Pero, en verdad, es la prosa la que no existe: existe el
alfabeto y después versos más o menos ceñidos, más o menos difusos. Cada vez
que se produce un esfuerzo de estilo, existe versificación.
Declaración suficiente
para invertir las posiciones de todos los términos, con una audacia
incomparablemente superior a la de los
vers-libristes. Esas tres frases eran suficientes para conseguir que el
verso asumiera una fisonomía que hasta entonces hubiera resultado aberrante: no
se trata ya del verso canónico de la métrica ni siquiera el informe verso
libre, sino de un ser ubicuo, nervadura oculta en toda composición hecha de
palabras. Si el verso respetuoso de la prosodia ha sufrido un atentado que
hirió para siempre su integridad, si la prosa, además, «no existe», ¿qué nos
queda? La literatura, pero bajo una nueva vestidura: resplandeciente y ubicua,
como un polvillo que todo lo envuelve, sujeta a una «dispersión en
estremecimientos articulados próximos a la instrumentación».
Un pasaje tan radical
difícilmente podía atribuirse a alguno de los eufóricos poetas que se dedicaban
a ensayar acentos nuevos. Estos eran solo la punta visible de un movimiento
subterráneo, sordo y grandioso, primera manifestación del hecho de que ya no
era posible establecer una correspondencia inmediata entre estilo y sociedad.
Eso es precisamente lo que agrega Mallarmé en la respuesta a su entrevistador,
utilizando un lenguaje sencillo y claro: «Sobre todo nos faltaba esta noción
indudable: que en una sociedad sin estabilidad, sin unidad, no puede crearse un
arte estable, un arte definitivo». De ahí «la inquietud de las inteligencias»,
de ahí, «la no explicada necesidad de individualidad, de las que las
manifestaciones literarias actuales son el reflejo directo». Formidable
sociólogo, Mallarmé estaba mucho más interesado, en esta ocasión, en un orden
de acontecimientos que comenzaba a perfilarse: la palmaria incapacidad de la
comunidad para crearse un estilo daría al estilo mismo la ocasión —esperada,
quizás, desde hacía siglos— para emanciparse, evadiéndose fuera de la sociedad
que lo había utilizado siempre para sus propios fines. Se abría entonces un
nuevo territorio, desconocido: el territorio de los «nudos rítmicos», lugar de
las formas escindidas de toda obediencia y que solo reposan en sí mismas.
Estas respuestas de
Mallarmé a Huret acerca de la prosa aparecen como afirmaciones apodícticas y,
sin embargo, del todo convincentes. Pero ¿cómo probarlo? Intentaré aproximarme
al tema mediante un ejemplo. Baudelaire incluyó en Spleen de Paris tres fragmentos que tienen el mismo título y tema
que tres poesías de las Fleurs du mal.
Entre ellas, la célebre Invitation au
voyage. El poema es perfecto, ligero como un Vermeer: en cada sílaba
destila aquella «dosis de opio natural, incesantemente secreta y renovada», que
«cada hombre lleva en sí», y que en Baudelaire era particularmente generosa. El
poème en prose, posterior, repite el
poema en verso punto por punto, pero suena mucho menos eficaz, y por momentos
demasiado enfático, al menos para quien conozca los versos. Al confrontar los
textos se observa que muchas de las imágenes y de las tournures comparecen en ambos. Pero el texto en prosa tiene un
vicio: es al mismo tiempo lírico y prolijo. Los versos, en cambio, son sobrios
y lacónicos. En varios de sus puntos, no sería posible dar una versión más
simple. Consideremos por ejemplo la descripción de los muebles que deberían
decorar el lugar de felicidad evocado. En el poema se dice: «Des muebles luisants, / Polis par les ans, /
Décoreraient notre chambre». En la prosa se lee: «Los muebles son grandes, curiosos, sofisticados, armados de cerraduras
y de secretos como almas refinadas. Los espejos, los metales, las alfombras, la
orfebrería y la loza suenan a los ojos como una sinfonía muda y misteriosa; y
de todas las cosas, de todos los ángulos, de las grietas de los cajones o de
los pliegues de la tapicería exhala un perfume singular, un olor de Sumatra,
que es como el alma del apartamento». Baudelaire, aquí, en su voluntad de
ser preciso, se diluye. El lector no sabe qué defecto es mayor: si la
comparación de los muebles con las «almas refinadas», solo porque están
provistas de cerraduras; o, quizás aún más, la imagen de los diversos objetos
que «suenan a los ojos como una sinfonía muda y misteriosa»; o el carácter
puntilloso con que se precisa que un cierto perfume exótico sería «el alma del
apartamento» (y aquí la palabra «apartamento», en su imperiosa facies
catastral, da la puntilla al encanto del texto). Se notan diversas torpezas que
alejan al texto en prosa del poema en verso: la mujer invitada al viaje es
evocada, en el poema, desde el primer verso, con el definitivo «Mon enfant, ma sœur», al que nada se
podría añadir. En el texto en prosa, en cambio, la mujer es definida al
principio como «une vieille amie»,
fórmula que suena como un ripio, y que más abajo se vuelve, con segura
progresión en esa línea insípida, «mon cher ange», después «la femme aimée», y aun «la sœur d’élection» (en la que «élection» suena como una nueva precisión
innecesaria). Pero también el uso del adjetivo «profond» es revelador: en el texto en prosa aparece dos veces, lo
que es ya demasiado, tanto más cuanto se suma a una mención de las «profoundeurs du ciel». Por otra parte,
ambas comparecencias del mismo adjetivo solo están separadas por tres líneas;
la primera vez referido al sonido de los relojes, la segunda a ciertas pinturas
que deberían adornar las habitaciones de los ausentes: «Beatas, serenas y
profundas como las almas de los artistas que las crearon». En el texto en
verso, en cambio, se habla solamente de «miroirs
profonds», en las mismas habitaciones. Se hace evidente cuánto más
eficaces, cuánto más intensas y misteriosas resultan las dos palabras del poema
respecto a la pesada acumulación de adjetivos de la prosa, agravada por una
ulterior aparición de la palabra «âme»,
esta vez en plural.
Podríamos continuar
con otros paralelos, pero el ejemplo dado es suficientemente elocuente. No
quisiera sin embargo que se pensara que se trata aquí solo de un enfrentamiento
entre prolijidad y concisión, entre la poeticidad —enemiga de toda literatura—
y la sobriedad. Mucho menos aún quisiera que se pensara en una superioridad
intrínseca del verso sobre la prosa: de hecho, sería fácil imaginar un ejemplo
inverso, de una poesía redundante que arruina la eficaz rapidez de un apunte en
prosa. La razón por la que he propuesto este ejemplo tiene que ver, en cambio,
con la teoría mallarmeana de la inexistencia de la prosa. Si los versos de la Invitation son incomparablemente más
bellos que su versión en prosa, es ante todo porque en ellos actúa, de manera
soberana, la potencia del metro, porque los versos están sujetos por una blanda
tenaza hecha de metro y de rima: dos pentasílabos con rima masculina seguidos
de un heptasílabo con rima femenina, en el que a la angulosidad —como si fueran
vértices de un triángulo— de las rimas masculinas responde cada vez el muelle
leve de las rimas femeninas. Esta berceuse apenas ondulante —como la de ciertos
navíos del «humeur vagabonde» en los
canales de Amsterdam, almacén europeo de esencias orientales—, este movimiento
apenas esbozado, pero perceptible con flamante nitidez, hace que las palabras
se vuelvan sus propias prisioneras y no puedan expandirse ni siquiera en una
sílaba de más, evitando de esta forma abismarse en explicaciones letales, en
eso que Verlaine llamaba «la Pointe
assassine».
¿Qué sucede, en
cambio, en la versión en prosa? ¿Actúa allí en verdad un metro oculto e
innominado, según la tesis de Mallarmé? ¿No sería esto contradictorio con los
propósitos del propio Baudelaire, quien en la carta a Houssaye que precede el Spleen de Paris presentaba la obra como
ejemplo de «una prosa poética, musical sin ritmo ni rima»? «Sin ritmo»: se
diría, a primera vista, una tesis del todo opuesta a la de Mallarmé. Como si la
prosa quisiera conquistar los territorios de la poesía evitando someterse a los
rigores de la métrica. Pero se sabe que las declaraciones de poética resultan a
menudo trampas que los escritores tienden amorosamente a sus lectores. Así,
Gianfranco Contini pudo detectar, ya en el primer párrafo de aquella soberbia
carta programática de Baudelaire, una tesitura hecha de emistiquios y
alejandrinos, y que culmina, en la última frase, con un alejandrino puro: «J’ose vous dédier le serpent tout entier».
Y el asunto no acaba aquí, ya que, extendiendo la investigación a cada uno de
los poèmes en prose, Contini encontró
numerosos emistiquios de alejandrino, entre los cuales puede detectarse incluso
«un depurado alejandrino, a veces de los más extraordinarios que Baudelaire
escribiera: “au loin je ne sais quoi avec
ses yeux de marbre”». O un alejandrino ligeramente irregular, como este: «Que les fins de journées d’automne sont pénétrantes».
Las pruebas convergen hacia esta conclusión: todo el Spleen de Paris está «impregnado de alejandrinos internos». Pero
¿qué sucede cuando, como en el caso de Invitation
au voyage, a la prosa preexiste un modelo en verso «que no tiene ninguna
relación con el alejandrino»? Hemos visto ya las consecuencias semánticas, con
aquellas amplificaciones que disuelven la fórmula mágica del verso en una onda
lenta, de mucho menor fascinación, aunque siempre poderosa. Sin embargo, el
oído de Contini consiguió aislar el numerus
de esa onda: «Tanto lujo se presta a una sola interpretación, que
epigráficamente se podría enunciar como la transformación de la Invitation en un equivalente de la
poesía en alejandrinos». Como si Baudelaire hubiera obedecido aquí, una vez
más, a la oscura compulsión a decirlo todo en alejandrinos. Solo en este metro
podía escandirse para él la lengua adánica. Por tanto, en ambas versiones de la
Invitation, la lucha no se establece
entre el metro y la prosa «sin ritmo», como Baudelaire pretendía. Se trata, en
cambio, de una lucha entre dos metros. Por una vez, el alejandrino sucumbe a la
berceuse. Acontecimiento tanto más
singular cuanto que, para decirlo en palabras de Contini, «Baudelaire, a pesar
de todo, habla, por así decir, naturalmente en alejandrinos o en fragmentos de
este metro, incluso allí donde los difumina o condensa». De modo que
alejandrinos internos del Spleen de Paris
acaban por corroborar, como una demostración por el absurdo, las tesis de
Mallarmé.
Ahora bien: ¿su
intención era solamente la de reafirmar la omnipresencia del metro en la prosa?
¿O buscaba expresar algo más sutil y más grave? Volvamos un momento a la
respuesta a Huret, en su pasaje más sorprendente: «… en verdad, es la prosa la
que no existe: existe el alfabeto y después versos más o menos ceñidos, más o
menos difusos». Es difícil comprender enseguida las consecuencias de esta
frase, puesto que son demasiado vastas. Como el opio según Baudelaire, son palabras
que tienen el poder de «prolongar lo ilimitado». El paisaje que ahora se abre
tiene dos extremos: por una parte el alfabeto, por la otra un ritmo. Y ritmo
significa metro. En un primer momento, se diría que el lenguaje, que hasta
entonces había dominado por completo la escena, se ha disuelto. Luego lo
reencontramos, como puro material que se elabora y continuamente transmigra de
un extremo al otro. Las relaciones han cambiado; ya no es el metro el que
subsiste en función del lenguaje, sino al contrario: el lenguaje se elabora en
función del metro. Solo el metro permite que exista el estilo; solo el estilo
permite que exista la literatura. En consecuencia, la diferencia entre poesía y
prosa es inconsistente. Se trata solo de grados distintos en el interior de un
mismo continuo. Las escansiones rítmicas pueden ser más o menos evidentes y
reconocibles. De todas formas, son esas las potencias que rigen la palabra,
como si su cualidad literaria se jugase sobre todo en la tensión entre este
elemento no verbal, gestual, urgente, y la articulación de la palabra misma.
Por otra parte, si «la prosa no existe», se puede agregar que tampoco la poesía
existe. ¿Qué queda, entonces? La literatura. Mallarmé lo había dicho con la
mayor nitidez: «La forma llamada verso es simplemente la propia literatura».
Pero había dicho también que, hasta la muerte de Hugo, esta verdad había
permanecido oculta como una divinidad en una cripta. Operante, pero bajo la
forma de «una majestuosa idea inconsciente», una suerte de sueño clandestino de
la literatura sobre sí misma. Ahora ese sueño salía a la luz del día. No otra
cosa tenía en mente Mallarmé cuando escribió que el fin de su siglo venía
acompañado por una «inquietud del velo del templo, con pliegues significativos
y hasta con ciertos desgarros». Palabras que sonaban en la mente de Yeats
cuando tituló «El temblor del velo» la primera parte de Autobiographies. Y sobre todo cuando, la noche del estreno de Ubu Roi, dijo a un amigo: «Después de
Stéphane Mallarmé, después de Paul Verlaine, después de Gustave Moreau, después
de Puvis de Chavannes, después de nuestros propios versos, después de todo
nuestro sutil color y nuestro ritmo nervioso, después de las pálidas tintas
mixtas de Charles Conder, ¿qué más es posible? Después de nosotros, el Dios
Salvaje».
A un siglo de
distancia, aunque un leve asomo de incredulidad se asome frente al nombre de
Puvis de Chavannes, al que nos resistimos a atribuir cualquier poder
inquietante, no podemos dejar de reconocer en esas palabras el acuerdo exaltado
de los nuevos tiempos. Sobre todo si tenemos en cuenta que Mallarmé aparece
como el nombre que hace de guía.
En este punto se hace
del todo evidente la forma en que, detrás de las reivindicaciones del vers libre, Mallarmé había entrevisto un
acontecimiento de dimensiones muchos más vastas, que se manifestaba «por
primera vez en el curso de la historia literaria de cualquier pueblo»: la
posibilidad, para cada individuo, «con la propia manera de tocar y con su oído
propio, de componerse un instrumento, con tal que lo sople, roce o percuta con
conocimiento». Se trata, en otros términos, de la evasión del canon de la
retórica, de la que no se reniega pero cuyo valor vinculante ha caducado, ni
puede pretender ya establecerse como la voz de una comunidad. A lo sumo, la
retórica entera correrá la suerte que corría ya el alejandrino: ser expuesto,
en cuanto «cadencia nacional», como la bandera, solo en días de fiesta y para
celebraciones señaladas. Sin embargo, para Mallarmé la salida de la fortaleza
de la retórica no era equivalente a zambullirse en un amorfo maelström. Al
contrario, lo que él vislumbraba era una literatura en la que el poder de la
forma tendría una fuerza aún mayor, liberada ya de toda sujeción y aún más
severamente cifrada, pero justamente por ello más cercana a nuestro fondo,
porque «debe de haber algo de oculto en el fondo de cada uno». Aquella
literatura inaudita se abría como una vasta superficie combinatoria, compuesta
de letras y sembrada de metros (enteros, quebrados, evidentes, contrahechos).
Justo en el momento en que se desautorizaba la métrica como voz de una
comunidad, los metros aislados, los singulares pasos fisiológicos se volvían el
numerus escondido y dador de vida de toda la literatura, dirigida ahora hacia
una fase altamente «polimorfa».
Pero nada era más
ajeno a Mallarmé que el gesto altanero de las vanguardias. Es cierto que la
situación impulsaba a una «alta libertad adquirida, la más nueva». A lo que sin
embargo él agregaba (y aquí el timbre de Mallarmé era tan sereno como firme):
«No veo, y es esta mi firme opinión, cancelación alguna de nada que haya sido
bello en el pasado». El cambio radical se producía en la posición estratégica
de la palabra «literatura». Por una parte, esta se volvía superflua e
inoperante, anegada bajo el peso del «universel
reportage» que la sofocaba. Pero era catapultada al mismo tiempo hacia un
nuevo cielo y una nueva tierra. Era esta la noticia más imperceptible e
inquietante. Mallarmé la ubicó cerca del centro de su conferencia de Oxford. Y
se aproximó a ella con todas las cautelas, adelantándose a advertir que se
trataba de una «exageración»:
Sí, la Literatura existe y, si se quiere, sola,
a excepción de todo.
Esta afirmación era mucho más chocante que cualquier disputa sobre el verso. Con su manera «un poco de sacerdote, un poco de bailarina», con su dicción infinitamente delicada y terrorista al mismo tiempo, Mallarmé notificaba que la literatura, una vez salida por la puerta de la sociedad, volvía a entrar por una cósmica ventana, después de haber absorbido en sí nada menos que el todo. Estas palabras señalaban la conclusión de una larga y sinuosa historia. Celebraban además la cristalización de una fiction temeraria, de la que se nutriría todo el siglo siguiente; y de la que nosotros seguimos alimentándonos, todavía: la literatura absoluta.
Traducción de EDGARDO DOBRY