jueves, 13 de febrero de 2025

Roberto Calasso: Mallarmé en Oxford

MALLARMÉ A OXFORD

Il 1° marzo del 1894, in una sala della Taylorian Institution a Oxford, davanti a un pubblico di una sessantina di persone, che egli descrisse come punteggiato di qualche professore ma nella maggior parte costituito da signore che «cercavano un’occasione per sentir parlare francese», Mallarmé pronunciò il discorso noto sotto il titolo La Musique et les Lettres. Invitato a fornire «informazioni su alcune circostanze della nostra situazione letteraria», prese alla lettera la sua incombenza di cronista e cominciò dando un annuncio che mimava un titolo di giornale:

«Di fatto porto notizie. Le più sorprendenti. Un caso simile mai si era visto.

«On a touché au vers».

Mirabile l’ironia di quell’«on», come nelle notizie degli attentati, dove l’incertezza sul soggetto accresce il terrore. E poi quel «touché», verbo così fisico. Che presuppone, per il verso, un precedente stato di intoccabilità. Mentre ora sembrava prospettarsi l’entrata in una condizione promiscua. E Mallarmé continuava poi a parodiare la prima pagina di un giornale, ma questa volta per la colonna dell’editoriale: «I governi cambiano: sempre la prosodia rimane intatta: sia che, nelle rivoluzioni, passi inosservata sia che l’attentato non si imponga insieme all’opinione che questo dogma ultimo possa variare». Poi si scusava per la dizione spigolosa e ansimante, come di chi ha visto un incidente e freme di riferirne, con una angoscia commisurata alla gravità del fatto: «Perché il verso è tutto, se si scrive». Mallarmé non dice: «se si è poeti». Dice: «se si scrive». Presupposto: che la prosa stessa non sia che «un verso spezzato, che gioca con i suoi timbri e anche le rime dissimulate». Seguono alcune righe tecniche, con un lampo finale: «perché ogni anima è un nodo ritmico».

Osserviamo questa sequenza di puro teatro mentale, che è poi la disciplina per elezione di Mallarmé: chiamato a parlare sul tema «French poetry», quasi da scuola serale, e preceduto – per quei pochi che già avevano sentito parlare di lui – da una fama di poeta non fra i più accessibili, Mallarmé esordisce con una formula che potrebbe essere il titolo cubitale di un quotidiano della sera; enuncia poche righe dopo – anzi sottintende – una delle sue tesi più audaci: che la prosa non esiste, che tutto è verso, più o meno riconoscibile; infine culmina in una di quelle formule irradianti di cui aveva il segreto: l’anima come «nodo ritmico». Chi non colga il «fiore» di Mallarmé – nel senso che la parola aveva per Zeami, fondatore del teatro Nō – nella successione di queste tre scene difficilmente lo coglierà in un suo sonetto.

Ma tentiamo di ricostruire gli eventi dei quali urgeva a Mallarmé dare notizia. All’origine troviamo la morte di Victor Hugo, nel 1885. Era stata una brusca svolta nella storia segreta della letteratura. Mallarmé così l’avrebbe descritta in Crise de vers:

«Hugo, nel suo compito misterioso, ridusse tutta la prosa, filosofia, eloquenza, storia al verso, e, poiché egli era in persona il verso, confiscò a coloro i quali pensano, discutono, narrano, quasi il diritto di enunciarsi. Monumento in questo deserto, con il silenzio lontano; in una cripta, la divinità di una maestosa idea inconscia: che la forma chiamata verso è semplicemente essa stessa la letteratura; che si dà verso non appena si accentua la dizione, ritmo allorché si dà stile. Il verso, credo, rispettosamente attese che il gigante che lo identificava con la sua mano tenace e sempre più ferma di fabbro venisse a mancare: per spezzarsi. Tutta la lingua, accordata con la metrica, da cui recupera le sue scansioni vitali, evade, secondo una libera disgiunzione dai mille elementi semplici».

Se la storia della letteratura sapesse nominare ciò che accade nella letteratura, parlerebbe così. In poche righe Mallarmé aveva raccontato il movimento, prima centripeto poi centrifugo, che governa la lingua francese fino a lui – e da lui a oggi. Centripeto: Hugo confisca tutte le forme nella sua fumosa officina. Lascia così intendere che il verso ingloba in sé tutta la letteratura. Centrifugo: alla morte di Hugo la letteratura prende l’occasione per evadere dal cerchio magico del metro, non più protetto dal possente Ciclope, e disperdersi «secondo una libera disgiunzione dai mille elementi semplici». Primo sintomo di questa fase: alcuni giovani poeti cominciano a rivendicare, talvolta con ingenua spavalderia, la pratica del vers libre. Mallarmé sa come nessuno che il vers libre non è una grande scoperta. Anzi, che parlare di libertà in letteratura è improprio – e suggerisce (genialmente) di chiamare quel nuovo verso «polimorfo». Ma non scoraggia quei giovani. Perché vede in loro i primi agenti del salutare rimescolamento conseguente alla «frammentazione dei grandi ritmi letterari». Ora, quasi d’improvviso, i metri, e persino l’alessandrino, che fra di essi è il «gioiello definitivo», fluttuano come nobili relitti, alla stregua di un «vecchio stampo esausto», mentre Laforgue già invita a subire «il sicuro incanto del verso falso». Ora le «dissonanze sapienti» sono un’attrazione per la sensibilità più delicata, mentre un tempo sarebbero state semplicemente condannate, con furia pedantesca. E qualcosa di affine stava accadendo in musica, dove il cromatismo esacerbato feriva e svuotava dall’interno la tonalità sino a che i viennesi l’avrebbero ripudiata.

Ma questi eventi andavano osservati sulla base anche di un’altra traumatica notizia che Mallarmé si ritenne ugualmente in dovere di trasmettere. Con somma sprezzatura, scelse questa volta l’occasione di una inchiesta giornalistica condotta per conto dell’«Écho de Paris» dal provvidenziale Jules Huret. Al quale così avrebbe parlato:

«Il verso è ovunque nella lingua vi sia ritmo, ovunque salvo nei manifesti e negli annunci pubblicitari. Nel genere chiamato prosa, ci sono versi, talvolta mirabili, in ogni ritmo. Ma, in verità, la prosa non c’è: c’è l’alfabeto e poi dei versi più o meno fitti, più o meno radi. Ogni volta che c’è sforzo di stile, vi è versificazione».

Dichiarazione sufficiente per rovesciare le posizioni di tutti i termini, con una audacia incomparabilmente maggiore di quella dei vers-libristes. Bastavano quelle tre frasi per far assumere al verso una fisionomia che prima di quel momento sarebbe apparsa aberrante: non più il verso canonico della metrica e neppure l’informe verso libero, ma un essere pervasivo e ubiquo, nervatura occulta di ogni composizione di parole. Se il verso rispettoso della prosodia ha subìto un attentato che ne lede per sempre l’integrità, se la prosa addirittura «non c’è», che cosa rimane allora? La letteratura, ma in un suo nuovo avatar: scintillante ovunque, come un pulviscolo onniavvolgente, assoggettata a uno «sparpagliamento in brividi articolati prossimi alla strumentazione».

Un passaggio così radicale difficilmente poteva essere attribuito ad alcuni acerbi poeti, che provavano nuovi accenti. Essi erano solo la spia di un sommovimento sordo e grandioso, il primo manifestarsi del fatto che ormai non era più possibile corrispondenza immediata fra stile e società. Questo volle aggiungere Mallarmé al suo intervistatore, usando un linguaggio piano e terso: «Soprattutto è venuta a mancare questa nozione indubitabile: che in una società senza stabilità, senza unità, non può crearsi un’arte stabile, un’arte definitiva». Da qui «l’inquietudine delle intelligenze», da qui «l’inspiegato bisogno di individualità di cui le manifestazioni letterarie attuali sono il riflesso diretto». Formidabile sociologo, se solo voleva, Mallarmé era ben più interessato a un altro ordine di eventi che si stava profilando: quella palese inadeguatezza della comunità a crearsi un suo stile avrebbe dato allo stile stesso l’occasione – forse attesa da secoli – per emanciparsi, evadendo al di fuori della società, che lo aveva sempre utilizzato ai propri fini. Mentre ora si apriva una nuova terra, sconosciuta: la terra dei «nodi ritmici», luogo delle forme sciolte da ogni obbedienza e riposanti in se stesse.

Ciò che Mallarmé disse a Huret sulla prosa si presenta come affermazione apodittica, eppure subito convincente. Ma come provarla? Tenterò di avvicinarmi al tema attraverso un esempio. Baudelaire incluse nello Spleen de Paris tre brani che hanno lo stesso titolo e tema di tre poesie delle Fleurs du mal. Fra di esse, la celebre Invitation au voyage. La lirica è perfetta, fusa come un Vermeer, in ogni sillaba vi si distilla quella «dose di oppio naturale, incessantemente secreta e rinnovata», che «ogni uomo porta in sé» – e che in Baudelaire era singolarmente generosa. Il poème en prose, posteriore, ricalca la lirica punto per punto, ma suona assai meno efficace, e talvolta sottolineato, almeno per chi già conosca i versi. Il perché di tutto questo non è evidente. Confrontando i due testi, si osserva che molte delle immagini e delle tournures compaiono in entrambi. Ma il testo in prosa ha un vizio: è insieme lirico e circostanziato. I versi invece sono sobri e laconici. Non sarebbe possibile, in vari punti, darne una versione più semplice. Consideriamo per esempio la descrizione dei mobili che dovrebbero arredare il luogo di felicità evocato. Nella lirica si dice: «Des meubles luisants, / Polis par les ans, / Décoreraient notre chambre». Nella prosa si dice: «I mobili sono vasti, curiosi, bizzarri, armati di serrature e di segreti come anime raffinate. Gli specchi, i metalli, le stoffe, gli oggetti preziosi e le maioliche vi suonano per gli occhi una sinfonia muta e misteriosa; e da tutte le cose, da tutti gli angoli, dagli spiragli dei cassetti e dalle pieghe delle stoffe esala un profumo singolare, un sentore di Sumatra, che è come l’anima dell’appartamento». Qui Baudelaire, precisando, diluisce. E non si sa che cosa deprecare di più: se il paragone dei mobili con le «anime raffinate», soltanto perché sono provvisti di serrature; o, forse ancor peggiore, l’immagine dei vari oggetti che «suonano per gli occhi una sinfonia muta e misteriosa»; o la puntigliosità con cui si precisa che un certo profumo esotico sarebbe «l’anima dell’appartamento» (e qui la parola «appartamento», nella sua impietosa facies catastale, dà l’ultimo colpo per togliere incanto al testo). Si fanno poi notare varie indelicatezze che distinguono il testo in prosa da quello in versi: la donna invitata al viaggio è evocata nella poesia al primo verso, con il definitivo «Mon enfant, ma sœur», a cui nulla si potrebbe aggiungere. Nel testo in prosa, invece, la donna viene definita all’inizio «une vieille amie», formula che già suona come una gaffe, e più avanti diventa, con sicura progressione nell’insipidezza, «mon cher ange», poi «la femme aimée», poi «la sœur d’élection» (dove quell’«élection» è un’altra precisazione non richiesta). Ma anche l’uso dell’aggettivo «profond» è rivelatore: nel testo in prosa appare due volte – già troppe, tanto più se si aggiunge anche una menzione delle «profondeurs du ciel» –, e oltretutto a distanza di tre righe: una volta riferito al suono degli orologi, l’altra a certe pitture che dovrebbero ornare le stanze degli assenti: «Beate, calme e profonde come le anime degli artisti che le crearono». Nel testo in versi, invece, si parla soltanto di «miroirs profonds» nelle stesse stanze. E appare subito palese quanto più efficaci, quanto più intense e misteriose siano le due parole della lirica rispetto all’ingombrante affastellarsi di aggettivi nella prosa, aggravato da un’ulteriore apparizione della parola «âme», questa volta al plurale.

Si potrebbe continuare con altri paralleli, ma già così il confronto è schiacciante. Non vorrei però si pensasse che si tratta qui soltanto di uno scontro fra prolissità e concisione, fra poeticità – nemica di ogni letteratura – e sobrietà. E tanto meno vorrei che si pensasse a una superiorità intrinseca del verso sulla prosa: di fatto, sarebbe facilmente immaginabile un esempio inverso, di una poesia ridondante che guasta l’asciutta rapidità di un appunto in prosa. La ragione per cui ho proposto questo esempio ha invece a che fare con la teoria mallarmeana dell’inesistenza della prosa. Se i versi dell’Invitation sono incomparabilmente più belli della versione in prosa, è innanzitutto perché in essi agisce, sovranamente, la potenza del metro, perché i versi sono stretti da una morbida tenaglia fatta di metro e di rima: due quinari con rima maschile seguiti da un settenario con rima femminile, dove alla spigolosità – come di vertici di un triangolo – delle rime maschili risponde ogni volta il lieve avvallamento della rima femminile. E questa berceuse appena ondeggiante – come certi navigli dalla «humeur vagabonde» nei canali di Amsterdam, magazzino europeo delle spezie orientali –, questo movimento appena accennato, ma percettibile con fiamminga nitidezza, fa sì che le parole diventino sue prigioniere e non possano espandersi oltre anche di una sola sillaba, così evitando di inoltrarsi nella spiegazione che uccide, in quella che Verlaine chiamava «la Pointe assassine».

Che accade invece nella versione in prosa? Vi agisce davvero un metro occulto e innominato, secondo la tesi di Mallarmé? Ma non contrasterebbe questo con i propositi di Baudelaire stesso, il quale, nella lettera-dedica a Houssaye che precede lo Spleen de Paris aveva presentato l’opera come esemplare di «una prosa poetica, musicale senza ritmo e senza rima»? «Senza ritmo»: si direbbe, di primo acchito, una tesi addirittura opposta a quella di Mallarmé. Come se la prosa volesse conquistare i territori della poesia senza sottoporsi ai rigori di una metrica. Ma si sa che le dichiarazioni di poetica sono spesso trappole amorosamente predisposte dagli scrittori per i loro lettori. Così è accaduto che lo specillo di Gianfranco Contini abbia un giorno isolato, già nel primo paragrafo di quella stupenda lettera programmatica di Baudelaire, una tessitura fatta di emistichi di alessandrino e culminante, nell’ultima frase, con un alessandrino puro: «J’ose vous dédier le serpent tout entier». Non solo, ma allargando l’indagine ai singoli poèmes en prose Contini vi ha individuato numerosi altri emistichi di alessandrino, fra i quali può anche spiccare «un compiuto alessandrino, talora fra i più straordinari che Baudelaire abbia scritto: “au loin je ne sais quoi avec ses yeux de marbre”». O un alessandrino lievemente irregolare come: «Que les fins de journées d’automne sont pénétrantes». E le prove convergono verso una conclusione: tutto lo Spleen de Paris è «grondante di alessandrini interni». Ma che cosa succede quando, come nel caso dell’Invitation au voyage, preesiste alla prosa un modello in versi «che non ha alcun rapporto con l’alessandrino»? Ne abbiamo già visto le conseguenze semantiche, con quelle amplificazioni che disciolgono la formula magica del verso in una lenta onda, dal fascino meno intenso, ma sempre alto. Ora, l’orecchio di Contini è riuscito a individuare il numerus anche di quell’onda: «Tanto lusso si presta a una sola interpretazione, che epigraficamente si potrà enunciare come trasformazione dell’Invitation in un equivalente della poesia in alessandrini». Come se Baudelaire avesse obbedito qui, ancora una volta, all’oscura coazione che lo spingeva a dire tutto in alessandrini. Solo in quel metro poteva scandirsi per lui la lingua adamica. Nelle due versioni dell’Invitation, il duello non è dunque fra il metro e la prosa «senza ritmo», come Baudelaire pretendeva. Ma è un duello fra due metri. E, per una volta, l’alessandrino soccombe alla berceuse. Evento tanto più singolare in quanto, come suona la formulazione di Contini, «Baudelaire, nonostante tutto, parla, per così dire, naturalmente in alessandrini o loro frammenti anche dove li smorza e riduce». Gli alessandrini interni dello Spleen de Paris vengono allora a corroborare, come una dimostrazione per assurdo, le tesi di Mallarmé.

Ma si trattava per lui soltanto di affermare una sorta di onnipresenza del metro nella prosa? O ciò che gli premeva era qualcosa di più sottile e più grave? Torniamo allora alle enunciazioni riportate da Huret, nei loro tratti più sorprendenti: «... in verità, la prosa non c’è: c’è l’alfabeto e poi dei versi più o meno fitti, più o meno radi». Difficile cogliere subito le conseguenze di queste frasi, tanto esse sono vaste. Come l’oppio secondo Baudelaire, sono parole che hanno il potere di «allungare l’illimitato». Il paesaggio che ora si spalanca ha due estremi: da una parte l’alfabeto, dall’altra un ritmo. E ritmo significa: metro. In un primo momento, si direbbe che il linguaggio, sino allora invadente e dominante sulla scena, si sia dissolto. Poi lo ritroviamo, come puro materiale che si elabora e continuamente trasmigra da un estremo all’altro. I rapporti sono mutati: ora non è più il metro che sussiste in funzione del linguaggio, ma l’inverso: il linguaggio si elabora in funzione del metro. Soltanto il metro fa sì che vi sia stile. E soltanto lo stile fa sì che vi sia letteratura. Di conseguenza: la differenza fra poesia e prosa è inconsistente. Si tratta solo di gradi diversi all’interno dello stesso continuo. Le scansioni ritmiche possono essere più o meno evidenti e riconoscibili. Comunque sono esse la potenza che regge la parola, come se la qualità letteraria si giocasse innanzitutto nella tensione fra questo elemento non verbale, gestuale, pressante e l’articolarsi della parola stessa. Inoltre: se «la prosa non c’è», si può dire anche che non c’è la poesia. Che cosa rimane, allora? La letteratura. Mallarmé lo aveva detto con la massima chiarezza: «la forma chiamata verso è semplicemente essa stessa la letteratura». Ma aveva anche detto che, sino alla morte di Hugo, questa verità era stata occultata come una divinità in una cripta. Operante, ma come «una maestosa idea inconscia», una sorta di sogno clandestino della letteratura intorno a se stessa. Ora quel sogno erompeva alla luce. E a questo pensava Mallarmé quando scriveva che la fine del suo secolo era accompagnata da una «inquietudine del velo nel tempio, con pieghe significative e un po’ il suo lacerarsi». Parole che suonavano nella mente di Yeats quando intitolò «Il tremito del velo» la prima parte di Autobiographies. E soprattutto quando, la sera della prima di Ubu Roi, disse a qualche amico: «Dopo Stéphane Mallarmé, dopo Paul Verlaine, dopo Gustave Moreau, dopo Puvis de Chavannes, dopo i nostri stessi versi, dopo tutto il nostro sottile colore e il nostro ritmo nervoso, dopo le pallide tinte miste di Charles Conder, che altro è ancora possibile? Dopo di noi, il Dio Selvaggio».

A distanza di un secolo, se un lieve accenno di incredulità si forma al nome di Puvis de Chavannes, al quale riluttiamo ad attribuire un qualche potere dissestante, per il resto non possiamo che riconoscere in quelle parole l’accordo surriscaldato dei tempi nuovi. Soprattutto se pensiamo che Mallarmé vi figurava in quanto nome che fa da guida.

Appare a questo punto sempre più evidente come, dietro le rivendicazioni del vers libre, Mallarmé aveva intravisto un evento di ben altra portata, che si manifestava «per la prima volta nel corso della storia letteraria di qualsiasi popolo»: la possibilità, per ogni singolo, «con il proprio modo di suonare e il proprio orecchio individuale, di comporsi uno strumento, appena vi soffia, lo sfiora o lo percuote con scienza». In altri termini, l’evasione dal canone della retorica, che non viene rinnegata ma non ha più valore vincolante, né può pretendere ormai di essere la voce di una comunità. Al più, toccherà alla retorica intera la sorte che ora aspetta l’alessandrino: venire esposto, in quanto «cadenza nazionale», come la bandiera, solo in giorni di festa e per rare celebrazioni. Ma per Mallarmé uscire dalla fortezza della retorica non significava tuffarsi in un informe maelstrom. Al contrario, ciò che al suo occhio balenava era una letteratura dove ancor più si sarebbe esaltato il potere della forma, ormai disancorata da tutto e ancor più severamente cifrata, ma forse appunto per questo più vicina al nostro fondo, perché «Deve esservi qualcosa di occulto in fondo a tutti». Quella inaudita letteratura si schiudeva come una vasta superficie combinatoria, composta di lettere e cosparsa di metri – integri, spezzati, palesi, contraffatti. Proprio nel momento in cui la metrica veniva esautorata come voce di una comunità, i singoli metri, i singoli passi fisiologici diventavano il numerus nascosto e animatore di tutta la letteratura, avviata ormai verso una fase altamente «polimorfa». Ma nulla era più alieno da Mallarmé del gesto baldanzoso delle avanguardie. Certo, la situazione costringeva a un’«alta libertà acquisita, la più nuova». A cui però andava aggiunto (e qui il timbro di Mallarmé era pacato e fermo): «Non vedo, e questo rimane mia ferma opinione, cancellazione di alcunché sia stato bello nel passato». Ciò che cambiava radicalmente era la posizione strategica della parola «letteratura». Da una parte resa superflua e inoperante dal dilagare dell’«universel reportage», che la soffocava. Ma catapultata, allo stesso tempo, in un nuovo cielo e nuova terra. Era proprio quest’ultima la più impercettibile e la più sconvolgente notizia. Mallarmé la dispose verso il centro della sua conferenza di Oxford. E vi si approssimò con tutte le cautele, avvertendo premurosamente che si trattava di una «esagerazione»:

«Sì, la Letteratura esiste e, se si vuole, sola, a eccezione di tutto».

Ben più di ogni disputa sul verso, questo poteva davvero lasciare allibiti. Con la sua maniera «un po’ da sacerdote, un po’ da ballerina», con la sua dizione infinitamente delicata e terroristica, Mallarmé notificava che la letteratura, uscita dalla porta della società, rientrava da una cosmica finestra, dopo aver assorbito in sé nulla meno che tutto. Quelle parole segnavano la conclusione di una lunga, sinuosa storia. E celebravano il cristallizzarsi di una fiction temeraria, di cui si sarebbe nutrito tutto il secolo allora incombente. Di cui continuiamo a nutrirci noi: la letteratura assoluta.

ROBERTO CALASSO

MALLARMÉ EN OXFORD

El 1° de marzo de 1894, en una sala de la Taylorian Institution de Oxford, Mallarmé pronunció el discurso conocido como La Musique et les Lettres. El público estaba constituido por unas sesenta personas, entre las que se encontraba algún profesor; pero la mayoría, según lo contará el propio Mallarmé, eran señoras que «buscaban una ocasión para oír hablar francés». Mallarmé se encontraba allí gracias a una invitación para dar «noticias de algunas circunstancias de nuestra situación literaria». Por lo que, tomándose al pie de la letra su cometido de cronista, comenzó con una información que imitaba un título de periódico:

En efecto traigo noticias. Las más sorprendentes. Nunca se había visto un caso similar.

On a touché au vers.

Es admirable la ironía de ese «on», como en las crónicas sobre crímenes, donde la incertidumbre del sujeto acrecienta el terror. Seguido de ese «touché», tan físico. Ello presupone, para el verso, un precedente estado de intangibilidad, mientras que ahora parecía anunciarse la entrada en una condición promiscua. Mallarmé continuaba luego la parodia de la primera página de un diario, empezando esta vez por la columna editorial: «Los gobiernos cambian: la prosodia siempre permanece intacta: ya sea porque, durante las revoluciones, transcurre inadvertida, o porque el atentado no se impone, gracias a la opinión que no cree que este dogma pueda cambiar». Después se disculpa de la dicción alambicada y jadeante, como quien ha presenciado un accidente y tiembla al contarlo, con una angustia proporcional a la gravedad del hecho: «Porque el verso lo es todo, si se escribe». Mallarmé no dice «si se es poeta»; dice: «si se escribe». Parte del presupuesto de que la prosa misma no es otra cosa que «un verso fragmentado, que juega con sus timbres e incluso con sus rimas disimuladas». Siguen algunas líneas técnicas, con una fulguración final: «porque toda alma es un nudo rítmico».

Observemos esta secuencia de puro teatro mental, que es por otra parte la disciplina favorita de Mallarmé: convocado para disertar sobre el tema «French poetry», como si se tratase de una escuela nocturna, y precedido —para los pocos que ya habían oído hablar de él— de una fama de poeta más bien hermético, Mallarmé abre su discurso con una fórmula que podría ser el título de varias columnas de un diario vespertino. Pocas líneas más abajo enuncia —o, mejor dicho, da por sobrentendido— una de sus tesis más audaces: que la poesía no existe, que todo es verso, más o menos reconocible. En fin, culmina una de aquellas fórmulas luminosas que era tan propias de él: el alma como «nudo rítmico». Quien no adivine la «flor» de Mallarmé —en el sentido que daba a esta palabra Zeami, el fundador del teatro No— en la sucesión de estas tres escenas, difícilmente será capaz de descubrirla en alguno de sus sonetos.

Pero intentemos reconstruir los acontecimientos acerca de los cuales Mallarmé quería dar noticia urgente. En el origen encontramos la muerte de Victor Hugo, en 1885. Se trataba del brusco final de una época en la historia secreta de la literatura. Mallarmé la describe así en Crise de vers:

En su misteriosa labor, Hugo redujo toda la prosa, la filosofía, la elocuencia y la historia al verso y, como era el verso en persona, a punto estuvo de confiscar, en quien piensa, discurre o narra, el derecho a enunciarse. Monumento en este desierto, con el silencio a lo lejos; en una cripta, la divinidad, así, de una majestuosa idea inconsciente, según la cual la forma llamada verso es, sencillamente, y por sí misma, la literatura; que hay verso en cuanto se acentúa la dicción, y ritmo desde que hay estilo. A mi juicio, el verso esperó con respeto a que faltase el gigante que identificaba con su mano tenaz y cada vez más firme de herrero, y, por él, llegara a romperse. Toda la lengua, ajustada a la métrica, y recobrando en ella sus cesuras vitales, desaparece, según una libre disyunción en mil elementos simples

Si la historia de la literatura supiese denominar aquello que tiene lugar en la misma literatura, hablaría sin duda en estos términos. En pocas líneas, Mallarmé había contado el movimiento, antes centrípeto que centrífugo, que gobierna la lengua francesa hasta él mismo, y, también, de él en adelante. Centrípeto: Hugo confisca todas las formas en su taller humeante. Deja entender de esta manera que el verso abarca en sí toda la literatura. Centrífugo: muerto Hugo, la literatura aprovecha la ocasión para evadirse del cerco mágico del metro, que el Cíclope ya no puede vigilar, y se dispersa «según una libre disyunción de miles de elementos simples». Síntoma primero de esta fase: algunos jóvenes poetas comienzan a reivindicar, acaso con ingenua arrogancia, la práctica del vers libre. Pero Mallarmé sabe mejor que nadie que el vers libre dista mucho de ser un gran descubrimiento. Sabe que hablar de libertad en literatura es incluso impropio, y sugiere (genialmente) denominar «polimorfo» a aquel verso nuevo. Sin embargo, no pretende desalentar a aquellos jóvenes que lo practican, puesto que ve en ellos a los primeros agentes de la saludable fundición que debe seguir a la «fragmentación de los grandes ritmos literarios». Ahora bien: casi de improviso, los metros, incluido el alejandrino, que es «la joya definitiva» de todos ellos, fluctúan como nobles fragmentos de un naufragio, tal como lo haría un «viejo molde exhausto», al mismo tiempo que Laforgue invita a experimentar «el seguro encanto del verso falso». Las «sabias disonancias» eran por entonces un divertimento para las sensibilidades más delicadas, pero tiempo después sencillamente se las condenaría, con furiosa pedantería. Algo semejante estaba sucediendo en la música: el cromatismo exacerbado hería y vaciaba la tonalidad desde su interior; tiempo después los vieneses iban a repudiarla definitivamente.

Pero estos acontecimientos eran observados además sobre la base de otra traumática noticia que Mallarmé se consideraba en el deber de transmitir. Con gran displicencia, escoge esta vez la ocasión de una encuesta periodística realizada para el Écho de Paris por el providencial Jules Huret. He aquí la respuesta de Mallarmé:

El verso se halla en cualquier parte en que la lengua tenga ritmo, salvo en los carteles y en los anuncios publicitarios. En el género denominado prosa, existen también los versos, a veces admirables, en todos los ritmos. Pero, en verdad, es la prosa la que no existe: existe el alfabeto y después versos más o menos ceñidos, más o menos difusos. Cada vez que se produce un esfuerzo de estilo, existe versificación.

Declaración suficiente para invertir las posiciones de todos los términos, con una audacia incomparablemente superior a la de los vers-libristes. Esas tres frases eran suficientes para conseguir que el verso asumiera una fisonomía que hasta entonces hubiera resultado aberrante: no se trata ya del verso canónico de la métrica ni siquiera el informe verso libre, sino de un ser ubicuo, nervadura oculta en toda composición hecha de palabras. Si el verso respetuoso de la prosodia ha sufrido un atentado que hirió para siempre su integridad, si la prosa, además, «no existe», ¿qué nos queda? La literatura, pero bajo una nueva vestidura: resplandeciente y ubicua, como un polvillo que todo lo envuelve, sujeta a una «dispersión en estremecimientos articulados próximos a la instrumentación».

Un pasaje tan radical difícilmente podía atribuirse a alguno de los eufóricos poetas que se dedicaban a ensayar acentos nuevos. Estos eran solo la punta visible de un movimiento subterráneo, sordo y grandioso, primera manifestación del hecho de que ya no era posible establecer una correspondencia inmediata entre estilo y sociedad. Eso es precisamente lo que agrega Mallarmé en la respuesta a su entrevistador, utilizando un lenguaje sencillo y claro: «Sobre todo nos faltaba esta noción indudable: que en una sociedad sin estabilidad, sin unidad, no puede crearse un arte estable, un arte definitivo». De ahí «la inquietud de las inteligencias», de ahí, «la no explicada necesidad de individualidad, de las que las manifestaciones literarias actuales son el reflejo directo». Formidable sociólogo, Mallarmé estaba mucho más interesado, en esta ocasión, en un orden de acontecimientos que comenzaba a perfilarse: la palmaria incapacidad de la comunidad para crearse un estilo daría al estilo mismo la ocasión —esperada, quizás, desde hacía siglos— para emanciparse, evadiéndose fuera de la sociedad que lo había utilizado siempre para sus propios fines. Se abría entonces un nuevo territorio, desconocido: el territorio de los «nudos rítmicos», lugar de las formas escindidas de toda obediencia y que solo reposan en sí mismas.

Estas respuestas de Mallarmé a Huret acerca de la prosa aparecen como afirmaciones apodícticas y, sin embargo, del todo convincentes. Pero ¿cómo probarlo? Intentaré aproximarme al tema mediante un ejemplo. Baudelaire incluyó en Spleen de Paris tres fragmentos que tienen el mismo título y tema que tres poesías de las Fleurs du mal. Entre ellas, la célebre Invitation au voyage. El poema es perfecto, ligero como un Vermeer: en cada sílaba destila aquella «dosis de opio natural, incesantemente secreta y renovada», que «cada hombre lleva en sí», y que en Baudelaire era particularmente generosa. El poème en prose, posterior, repite el poema en verso punto por punto, pero suena mucho menos eficaz, y por momentos demasiado enfático, al menos para quien conozca los versos. Al confrontar los textos se observa que muchas de las imágenes y de las tournures comparecen en ambos. Pero el texto en prosa tiene un vicio: es al mismo tiempo lírico y prolijo. Los versos, en cambio, son sobrios y lacónicos. En varios de sus puntos, no sería posible dar una versión más simple. Consideremos por ejemplo la descripción de los muebles que deberían decorar el lugar de felicidad evocado. En el poema se dice: «Des muebles luisants, / Polis par les ans, / Décoreraient notre chambre». En la prosa se lee: «Los muebles son grandes, curiosos, sofisticados, armados de cerraduras y de secretos como almas refinadas. Los espejos, los metales, las alfombras, la orfebrería y la loza suenan a los ojos como una sinfonía muda y misteriosa; y de todas las cosas, de todos los ángulos, de las grietas de los cajones o de los pliegues de la tapicería exhala un perfume singular, un olor de Sumatra, que es como el alma del apartamento». Baudelaire, aquí, en su voluntad de ser preciso, se diluye. El lector no sabe qué defecto es mayor: si la comparación de los muebles con las «almas refinadas», solo porque están provistas de cerraduras; o, quizás aún más, la imagen de los diversos objetos que «suenan a los ojos como una sinfonía muda y misteriosa»; o el carácter puntilloso con que se precisa que un cierto perfume exótico sería «el alma del apartamento» (y aquí la palabra «apartamento», en su imperiosa facies catastral, da la puntilla al encanto del texto). Se notan diversas torpezas que alejan al texto en prosa del poema en verso: la mujer invitada al viaje es evocada, en el poema, desde el primer verso, con el definitivo «Mon enfant, ma sœur», al que nada se podría añadir. En el texto en prosa, en cambio, la mujer es definida al principio como «une vieille amie», fórmula que suena como un ripio, y que más abajo se vuelve, con segura progresión en esa línea insípida, «mon cher ange», después «la femme aimée», y aun «la sœur d’élection» (en la que «élection» suena como una nueva precisión innecesaria). Pero también el uso del adjetivo «profond» es revelador: en el texto en prosa aparece dos veces, lo que es ya demasiado, tanto más cuanto se suma a una mención de las «profoundeurs du ciel». Por otra parte, ambas comparecencias del mismo adjetivo solo están separadas por tres líneas; la primera vez referido al sonido de los relojes, la segunda a ciertas pinturas que deberían adornar las habitaciones de los ausentes: «Beatas, serenas y profundas como las almas de los artistas que las crearon». En el texto en verso, en cambio, se habla solamente de «miroirs profonds», en las mismas habitaciones. Se hace evidente cuánto más eficaces, cuánto más intensas y misteriosas resultan las dos palabras del poema respecto a la pesada acumulación de adjetivos de la prosa, agravada por una ulterior aparición de la palabra «âme», esta vez en plural.

Podríamos continuar con otros paralelos, pero el ejemplo dado es suficientemente elocuente. No quisiera sin embargo que se pensara que se trata aquí solo de un enfrentamiento entre prolijidad y concisión, entre la poeticidad —enemiga de toda literatura— y la sobriedad. Mucho menos aún quisiera que se pensara en una superioridad intrínseca del verso sobre la prosa: de hecho, sería fácil imaginar un ejemplo inverso, de una poesía redundante que arruina la eficaz rapidez de un apunte en prosa. La razón por la que he propuesto este ejemplo tiene que ver, en cambio, con la teoría mallarmeana de la inexistencia de la prosa. Si los versos de la Invitation son incomparablemente más bellos que su versión en prosa, es ante todo porque en ellos actúa, de manera soberana, la potencia del metro, porque los versos están sujetos por una blanda tenaza hecha de metro y de rima: dos pentasílabos con rima masculina seguidos de un heptasílabo con rima femenina, en el que a la angulosidad —como si fueran vértices de un triángulo— de las rimas masculinas responde cada vez el muelle leve de las rimas femeninas. Esta berceuse apenas ondulante —como la de ciertos navíos del «humeur vagabonde» en los canales de Amsterdam, almacén europeo de esencias orientales—, este movimiento apenas esbozado, pero perceptible con flamante nitidez, hace que las palabras se vuelvan sus propias prisioneras y no puedan expandirse ni siquiera en una sílaba de más, evitando de esta forma abismarse en explicaciones letales, en eso que Verlaine llamaba «la Pointe assassine».

¿Qué sucede, en cambio, en la versión en prosa? ¿Actúa allí en verdad un metro oculto e innominado, según la tesis de Mallarmé? ¿No sería esto contradictorio con los propósitos del propio Baudelaire, quien en la carta a Houssaye que precede el Spleen de Paris presentaba la obra como ejemplo de «una prosa poética, musical sin ritmo ni rima»? «Sin ritmo»: se diría, a primera vista, una tesis del todo opuesta a la de Mallarmé. Como si la prosa quisiera conquistar los territorios de la poesía evitando someterse a los rigores de la métrica. Pero se sabe que las declaraciones de poética resultan a menudo trampas que los escritores tienden amorosamente a sus lectores. Así, Gianfranco Contini pudo detectar, ya en el primer párrafo de aquella soberbia carta programática de Baudelaire, una tesitura hecha de emistiquios y alejandrinos, y que culmina, en la última frase, con un alejandrino puro: «J’ose vous dédier le serpent tout entier». Y el asunto no acaba aquí, ya que, extendiendo la investigación a cada uno de los poèmes en prose, Contini encontró numerosos emistiquios de alejandrino, entre los cuales puede detectarse incluso «un depurado alejandrino, a veces de los más extraordinarios que Baudelaire escribiera: “au loin je ne sais quoi avec ses yeux de marbre”». O un alejandrino ligeramente irregular, como este: «Que les fins de journées d’automne sont pénétrantes». Las pruebas convergen hacia esta conclusión: todo el Spleen de Paris está «impregnado de alejandrinos internos». Pero ¿qué sucede cuando, como en el caso de Invitation au voyage, a la prosa preexiste un modelo en verso «que no tiene ninguna relación con el alejandrino»? Hemos visto ya las consecuencias semánticas, con aquellas amplificaciones que disuelven la fórmula mágica del verso en una onda lenta, de mucho menor fascinación, aunque siempre poderosa. Sin embargo, el oído de Contini consiguió aislar el numerus de esa onda: «Tanto lujo se presta a una sola interpretación, que epigráficamente se podría enunciar como la transformación de la Invitation en un equivalente de la poesía en alejandrinos». Como si Baudelaire hubiera obedecido aquí, una vez más, a la oscura compulsión a decirlo todo en alejandrinos. Solo en este metro podía escandirse para él la lengua adánica. Por tanto, en ambas versiones de la Invitation, la lucha no se establece entre el metro y la prosa «sin ritmo», como Baudelaire pretendía. Se trata, en cambio, de una lucha entre dos metros. Por una vez, el alejandrino sucumbe a la berceuse. Acontecimiento tanto más singular cuanto que, para decirlo en palabras de Contini, «Baudelaire, a pesar de todo, habla, por así decir, naturalmente en alejandrinos o en fragmentos de este metro, incluso allí donde los difumina o condensa». De modo que alejandrinos internos del Spleen de Paris acaban por corroborar, como una demostración por el absurdo, las tesis de Mallarmé.

Ahora bien: ¿su intención era solamente la de reafirmar la omnipresencia del metro en la prosa? ¿O buscaba expresar algo más sutil y más grave? Volvamos un momento a la respuesta a Huret, en su pasaje más sorprendente: «… en verdad, es la prosa la que no existe: existe el alfabeto y después versos más o menos ceñidos, más o menos difusos». Es difícil comprender enseguida las consecuencias de esta frase, puesto que son demasiado vastas. Como el opio según Baudelaire, son palabras que tienen el poder de «prolongar lo ilimitado». El paisaje que ahora se abre tiene dos extremos: por una parte el alfabeto, por la otra un ritmo. Y ritmo significa metro. En un primer momento, se diría que el lenguaje, que hasta entonces había dominado por completo la escena, se ha disuelto. Luego lo reencontramos, como puro material que se elabora y continuamente transmigra de un extremo al otro. Las relaciones han cambiado; ya no es el metro el que subsiste en función del lenguaje, sino al contrario: el lenguaje se elabora en función del metro. Solo el metro permite que exista el estilo; solo el estilo permite que exista la literatura. En consecuencia, la diferencia entre poesía y prosa es inconsistente. Se trata solo de grados distintos en el interior de un mismo continuo. Las escansiones rítmicas pueden ser más o menos evidentes y reconocibles. De todas formas, son esas las potencias que rigen la palabra, como si su cualidad literaria se jugase sobre todo en la tensión entre este elemento no verbal, gestual, urgente, y la articulación de la palabra misma. Por otra parte, si «la prosa no existe», se puede agregar que tampoco la poesía existe. ¿Qué queda, entonces? La literatura. Mallarmé lo había dicho con la mayor nitidez: «La forma llamada verso es simplemente la propia literatura». Pero había dicho también que, hasta la muerte de Hugo, esta verdad había permanecido oculta como una divinidad en una cripta. Operante, pero bajo la forma de «una majestuosa idea inconsciente», una suerte de sueño clandestino de la literatura sobre sí misma. Ahora ese sueño salía a la luz del día. No otra cosa tenía en mente Mallarmé cuando escribió que el fin de su siglo venía acompañado por una «inquietud del velo del templo, con pliegues significativos y hasta con ciertos desgarros». Palabras que sonaban en la mente de Yeats cuando tituló «El temblor del velo» la primera parte de Autobiographies. Y sobre todo cuando, la noche del estreno de Ubu Roi, dijo a un amigo: «Después de Stéphane Mallarmé, después de Paul Verlaine, después de Gustave Moreau, después de Puvis de Chavannes, después de nuestros propios versos, después de todo nuestro sutil color y nuestro ritmo nervioso, después de las pálidas tintas mixtas de Charles Conder, ¿qué más es posible? Después de nosotros, el Dios Salvaje».

A un siglo de distancia, aunque un leve asomo de incredulidad se asome frente al nombre de Puvis de Chavannes, al que nos resistimos a atribuir cualquier poder inquietante, no podemos dejar de reconocer en esas palabras el acuerdo exaltado de los nuevos tiempos. Sobre todo si tenemos en cuenta que Mallarmé aparece como el nombre que hace de guía.

En este punto se hace del todo evidente la forma en que, detrás de las reivindicaciones del vers libre, Mallarmé había entrevisto un acontecimiento de dimensiones muchos más vastas, que se manifestaba «por primera vez en el curso de la historia literaria de cualquier pueblo»: la posibilidad, para cada individuo, «con la propia manera de tocar y con su oído propio, de componerse un instrumento, con tal que lo sople, roce o percuta con conocimiento». Se trata, en otros términos, de la evasión del canon de la retórica, de la que no se reniega pero cuyo valor vinculante ha caducado, ni puede pretender ya establecerse como la voz de una comunidad. A lo sumo, la retórica entera correrá la suerte que corría ya el alejandrino: ser expuesto, en cuanto «cadencia nacional», como la bandera, solo en días de fiesta y para celebraciones señaladas. Sin embargo, para Mallarmé la salida de la fortaleza de la retórica no era equivalente a zambullirse en un amorfo maelström. Al contrario, lo que él vislumbraba era una literatura en la que el poder de la forma tendría una fuerza aún mayor, liberada ya de toda sujeción y aún más severamente cifrada, pero justamente por ello más cercana a nuestro fondo, porque «debe de haber algo de oculto en el fondo de cada uno». Aquella literatura inaudita se abría como una vasta superficie combinatoria, compuesta de letras y sembrada de metros (enteros, quebrados, evidentes, contrahechos). Justo en el momento en que se desautorizaba la métrica como voz de una comunidad, los metros aislados, los singulares pasos fisiológicos se volvían el numerus escondido y dador de vida de toda la literatura, dirigida ahora hacia una fase altamente «polimorfa».

Pero nada era más ajeno a Mallarmé que el gesto altanero de las vanguardias. Es cierto que la situación impulsaba a una «alta libertad adquirida, la más nueva». A lo que sin embargo él agregaba (y aquí el timbre de Mallarmé era tan sereno como firme): «No veo, y es esta mi firme opinión, cancelación alguna de nada que haya sido bello en el pasado». El cambio radical se producía en la posición estratégica de la palabra «literatura». Por una parte, esta se volvía superflua e inoperante, anegada bajo el peso del «universel reportage» que la sofocaba. Pero era catapultada al mismo tiempo hacia un nuevo cielo y una nueva tierra. Era esta la noticia más imperceptible e inquietante. Mallarmé la ubicó cerca del centro de su conferencia de Oxford. Y se aproximó a ella con todas las cautelas, adelantándose a advertir que se trataba de una «exageración»:

Sí, la Literatura existe y, si se quiere, sola, a excepción de todo.

Esta afirmación era mucho más chocante que cualquier disputa sobre el verso. Con su manera «un poco de sacerdote, un poco de bailarina», con su dicción infinitamente delicada y terrorista al mismo tiempo, Mallarmé notificaba que la literatura, una vez salida por la puerta de la sociedad, volvía a entrar por una cósmica ventana, después de haber absorbido en sí nada menos que el todo. Estas palabras señalaban la conclusión de una larga y sinuosa historia. Celebraban además la cristalización de una fiction temeraria, de la que se nutriría todo el siglo siguiente; y de la que nosotros seguimos alimentándonos, todavía: la literatura absoluta.

Traducción de EDGARDO DOBRY